martedì, Aprile 16, 2024
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Tecniche spettroscopiche e spettrofotometriche. Uno sguardo d’assieme

Premessa

Iniziamo con questo numero un percorso che ci porterà a conoscere le più moderne tecniche spettroscopiche e spettrofotometriche utilizzate oggigiorno dai laboratori per l’analisi dei materiali gemmologici. Quella che segue è una veloce panoramica delle metodologie maggiormente utilizzate; l’idea è quella di far seguire a questa brevissima carrellata una serie di articoli che di volta in volta approfondiranno, per quanto possibile, la descrizione delle procedure e, soprattutto, delle applicazioni gemmologiche dei singoli strumenti. Trattandosi di gemme, l’inviolabilità del campione è un presupposto indispensabile dell’indagine gemmologica. Per questo motivo alcuni procedimenti utilizzati in altri ambiti non possono essere presi in considerazione.

Lo spettro elettromagnetico rappresenta l’insieme complessivo di tutte le radiazioni elettromagnetiche in base alle loro frequenze e, di conseguenza, alle loro lunghezze d’onda. E’ convenzionalmente suddiviso in intervalli (Figura 1) dei quali solo una minima parte percepibile dall’occhio umano sotto forma di luce. L’interazione tra gemme e radiazioni elettromagnetiche fornisce uno straordinario numero di possibili indizi diagnostici utili all’identificazione e alla classificazione del materiale gemmologico nonché all’individuazione dei loro trattamenti.

Fig. 1 – Lo spettro elettromagnetico.

Spettroscopio – le origini

Fino a tempi relativamente recenti lo strumento maggiormente utilizzato per l’analisi spettroscopica delle gemme è stato lo spettroscopio ottico. Mediante l’uso di questo apparato è possibile valutare l’assorbimento di porzioni dello spettro di radiazione visibile da parte di una gemma. Il confronto diretto con una raccolta di spettri rappresentativi consente infine l’identificazione del materiale. Posizionando la sorgente luminosa e la pietra come in Figura 2 è possibile “leggere” sulla scala (che può essere graduata) la radiazione emessa dalla gemma esposta alla sorgente. Lo spettro presenterà bande nere di varie ampiezze inframmezzate a quelle colorate tipiche che compongono la radiazione visibile. Le porzioni scure rappresentano l’assorbimento delle corrispondenti lunghezze d’onda da parte della gemma. Sebbene spesso efficace, questo sistema si rivela piuttosto impreciso per spettri molto simili. Il suo limite maggiore, almeno per quanto attiene agli spettroscopi gemmologici più comuni, risiede nella difficoltà per l’operatore di distinguere dettagliatamente le bande di assorbimento all’interno dell’oculare, nel cui spazio molto ridotto, viene visualizzato l’intero spettro del visibile. Ne consegue una relativa imprecisione nei casi in cui sia importante individuare dettagli più significativi piuttosto che non il mero assorbimento totale della luce.

Fig. 2 – Tecnica schematizzata di visualizzazione dello spettro di assorbimento. A sinistra la sorgente luminosa, a destra lo spettro risultante dall’assorbimento di alcune lunghezze d’onda da parte dello zaffiro come appare attraverso lo spettroscopio ottico. Al centro, in alto l’immagine dello strumento. (Fonte immagine: http://www.oplspectra.com)

Spettroscopia UV-Vis-NIR (Ultraviolet-Visible-Near infrared)

La versione moderna dello spettroscopio ottico è lo spettrofotometro. Con questo tipo di apparati è possibile ampliare la lunghezza d’onda rilevabile a valori al di sotto (Ultraviolletto – UV) ed al di sopra (Vicino infrarosso – NIR) di quelle dell’intervallo visibile. Ne consegue un maggior numero di interazioni analizzabili e, logicamente, un’accresciuta efficacia strumentale. Lo spettro, in questo caso, è rappresentato graficamente (Figura 3), per cui non solo è possibile rilevare picchi di assorbimento anche relativamente piccoli, non percepibili mediante lo spettroscopio ottico, ma anche l’andamento del grafico fornisce ulteriori informazioni estremamente utili ai fini dell’indagine gemmologica.

Fig. 3 – Zircone color change, spettri della stessa pietra a confronto. In alto si può osservare la lettura a mezzo spettroscopio ottico, in basso la scansione dello spettrofotometro. A prescindere dalle informazioni presenti nel vicino infrarosso, non rilevabili con lo spettroscopio ottico, i dettagli della porzione visibile sono sicuramente di più facile lettura. Va anche considerato che l’immagine dello spettro in alto si presenta, nella realtà, di una larghezza inferiore al centrimetro.

Spettrofotometria EDXRF (Energy Dispersive X-ray Fluorescence)

Spostandoci idealmente lungo lo spettro verso onde a maggior energia troviamo la spettrofotometria ai raggi X. Il campione da analizzare viene esposto ad un fascio di raggi X e la risultante fluorescenza fornisce indicazioni sulla composizione elementale del materiale. In questo caso le informazioni fornite possono essere di carattere quantitativo, per cui misurabili (Figura 4). Da qui la denominazione di “spettrofotometria” in luogo di “spettroscopia” che consente analisi di carattere esclusivamente “qualitativo”. Grazie alla sua precisione e, soprattutto, alla possibilità di analizzare campioni in modo assolutamente non distruttivo, questa tecnica si è rivelata, negli ultimi anni, come la più adatta al saggio delle leghe di metalli preziosi divenendo standard analitico indiscusso.

Fig. 4 – Moderna unità EDXRF. Il comparto ermetico per I campioni visibile sulla destra consente una condizione di vuoto parziale per migliorare le prestazioni analitiche. (Fonte immagine: https://www.thermofisher.com/order/catalog/product/IQLAAHGABMFAAWMACL)

Spettroscopia IR (Infrared)

Siamo ora al di sopra della lunghezza d’onda del visibile, in questo caso nell’infrarosso. L’interazione della sorgente con il campione fornisce elementi utili a conoscere non solo la sua composizione chimica ma anche informazioni relative ai legami atomici che la contraddistinguono (Figura 5). Ciò avviene perché la radiazione infrarossa sollecita moti vibrazionali e rotazionali nelle molecole del materiale esaminato. Per questo motivo questa tecnica viene chiamata anche “vibrazionale” o “molecolare”. La tecnica FTIR (spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier), mediante un interferometro, consente la scansione di tutte le frequenze nella radiazione infrarossa e questo si traduce in un drastico aumento dell’energia disponibile che incrementa notevolmente il rapporto segnale/rumore. In breve, rispetto alla tradizionale IR, la spettroscopia FTIR coniuga una maggiore efficacia nella resa dello spettro ad una sensibile riduzione dei tempi di scansione; non necessita, inoltre, come la tecnica IR, di alcuna preparazione del campione. Non stupisce quindi che si sia stabilmente affermata come lo standard analitico strumentale maggiormente diffuso in questo ambito. La spettroscopia FTIR è stata utilizzata per suddividere i diamanti in classi in base alla presenza di impurezze di azoto, in forma singola o di aggregati, all’interno del reticolo cristallino.

Fig. 5 – Rubino pronto per l’analisi in modulo DRIFT. Originariamente studiato per analizzare campioni in polvere, si è dimostrato, se opportunamente modificato, il più efficace disponibile per uso gemmologico.

Spettroscopia Raman

Si tratta anche in questo caso di una tecnica “vibrazionale”. La fondamentale differenza rispetto a quasi tutte le altre tecniche spettroscopiche risiede nel fatto che possono essere impiegate come sorgenti lunghezze d’onda che vanno dall’ultravioletto all’infrarosso. L’unico requisito imprescindibile è che devono essere monocromatiche, per cui è uso comune, quando si descrive un apparato Raman, fornire anche l’indicazione della lunghezza d’onda della sorgente utilizzata. Alla base di questa tecnica risiede l’effetto di diffusione anelastica, o effetto Raman. Lasceremo la spiegazione nel dettaglio dell’effetto Raman all’articolo dedicato che verrà pubblicato in seguito; la caratteristica più importante che si può descrivere in breve è che, mediante questa tecnica, è possibile l’identificazione di un materiale a mezzo di uno spettro unico e diagnostico al 100% che, non a caso, è comunemente denominato “Raman fingerprint”. Grazie alla possibilità di effettuare l’analisi spettroscopica in porzioni spaziali precisamente definite, Il Micro Raman confocale (Figura 6) si è rivelato il più efficace strumento per l’analisi delle inclusioni nelle gemme consentendone in moltissimi casi l’individuazione certa quando, in passato, era possibile solo ipotizzarne la natura mediante lo studio delle caratteristiche ottiche e morfologiche.

Fig. 6 – Analisi delle inclusioni in uno smeraldo mediante Micro Raman Confocale. La risoluzione spaziale di questa unità è dell’ordine di pochi micron.

Spettroscopia a Fotoluminescenza (PL)

Anche in questo caso, come nella spettroscopia Raman, la sorgente utilizzata deve essere monocromatica. In genere, per motivi pratici che spiegheremo a tempo debito, vengono utilizzate come sorgente lunghezze d’onda nello spettro del visibile. Si tratta di una tecnica che ha avuto un impulso notevole negli ultimi anni grazie ai progressi tecnologici delle sorgenti laser. È necessaria, infatti, una notevole potenza per consentire la stimolazione efficace del campione. L’ambito gemmologico in cui questa tecnica trova le maggiori applicazioni è lo studio dei difetti nella struttura cristallina del diamante. Si tratta di un campo di primaria importanza in quanto, specialmente nell’indagine sui trattamenti e sintetici, la spettroscopia PL è lo strumento principale con cui è possibile rilevare difetti nell’ordine di parti per miliardo (ppb), impossibili da identificare con altre tecniche. Un tipico esempio è dato dalla possibilità di rilevare aggregati di azoto anche nei diamanti di tipo II che, per definizione, ne sono esenti (Figura 7). La ragione sta nel fatto che la sensibilità della FTIR, originariamente utilizzata per la distinzione, è dell’ordine delle parti per milione (ppm), ben al di sotto, quindi, della sensibilità ottenibile mediante spettroscopia PL. A ben vedere, in effetti, la stessa denominazione dei diamanti di tipo II come privi di azoto dovrebbe essere quantomeno rivista. La metodologia più efficace nell’analisi dei diamanti prevede l’immersione del campione in azoto liquido per consentire una miglior evidenziazione dei picchi di emissione caratteristici.

Fig. 7 – Spettri PL di Diamante sintetico CVD registrato a temperatura ambiente e in azoto liquido. Si notino le differenti intensità delle emissioni causate dai relativi difetti NV0, NV- e SiV. La tecnica criogenica consente di evidenziare caratteristiche spesso non visibili a temperature più elevate.

Spettrometria di massa

Importanza sempre crescente in ambito gemmologico è riservata alla possibilità di tracciare la provenienza geografica delle gemme. Quanto questo sia realmente fattibile rimane oggetto di molteplici dubbi, ma tant’è. L’argomento è probabilmente tra i più dibattuti e controversi e meriterebbe una sua trattazione specifica che non ci è possibile approfondire in questa sede. Non ci sono tuttavia dubbi sul fatto che, soprattutto i laboratori maggiormente accreditati, stiano investendo una mole sempre crescente di risorse nel tentativo di fornire indicazioni via via più precise in tal senso. La strada maggiormente battuta sembra essere quella di mappare tutti gli elementi in traccia presenti nelle gemme provenienti dai giacimenti conosciuti in modo da poter costituire un database i cui dati possano essere confrontati con quelli delle pietre esaminate.

La tecnica necessaria per questo compito è la spettrometria di massa. C’è da precisare che, in entrambe le tecniche descritte in seguito, il campione deve essere “ablato” di una sua seppur infinitesima porzione. Questo requisito si pone in aperta contraddizione con il concetto di “non distruttibilità” enunciato in principio e costituisce un grosso limite allo sviluppo ed utilizzo commerciale di queste metodologie analitiche.

Fig. 8 – Unità LIBS: Sulla sinistra il modulo di comando e alimentazione del laser. Al centro il compartimento per l’ablazione del campione con il laser montato verticalmente. A destra l’unità spettrofotometrica composta, in questo caso, di 7 unità singole disposte contiguamente a formare un unico spettro. (Fonte immagine: http://www.phys-astro.sonoma.edu/people/faculty/shi/keck.htm)

Spettroscopia LIBS (Laser Induced Breakdown Spectroscopy)

Benché sia possibile effettuare in alcuni casi misurazioni quantitative, si tratta, in effetti, più di una tecnica spettroscopica che spettrometrica. Verso la fine del secolo scorso iniziò a comparire sul mercato una insolita quantità di corindoni dai colori sgargianti e in alcuni casi mai visti prima. Stabilita l’origine naturale dei corindoni, si iniziò allora a studiare il materiale nel tentativo di scoprire quello che era plausibile supporre ma, allora, quasi impossibile da provare: la presenza di un trattamento artificiale. Nessun metodo avanzato tradizionalmente utilizzato sembrava efficace e ci volle del tempo prima di scoprire che l’elemento impiegato per la termodiffusione era uno dei più leggeri e sfuggenti, non rilevabile se non a mezzo spettrometria di massa: il berillio. Il problema principale è che, per rilevare elementi così leggeri, è necessario ionizzare il materiale per cui, da subito, ci si rese conto che l’analisi doveva essere per forza di cose parzialmente “distruttiva”. Il procedimento deve essere condotto in atmosfera controllata per eliminare contaminazioni, di solito saturata con un gas inerte (Figura 8). La procedura prevede che un laser ad alta potenza vaporizzi una porzione infinitesima del campione (dell’ordine di 40 micron o meno). Il materiale ionizzato viene quindi analizzato da uno spettrometro ad alta risoluzione. I sistemi LIBS più comuni utilizzati in gemmologia sono abitualmente calibrati per la ricerca del berillio per cui possono scansionare una porzione molto ristretta dello spettro.

 

Spettrometria LA-ICP-MS (Laser Ablation-Inductively Coupled Plasma-Mass Spectrometry)

A differenza della LIBS, lo spettrometro di massa LA-ICP-MS è capace di rilevare gli elementi fino ad una concentrazione di 1 su 1015 parti (ppq) e di calcolarne la relativa concentrazione. La procedura è solo parzialmente sovrapponibile a quella utilizzata nella LIBS; in questo caso, infatti, il materiale ablato dal laser non viene analizzato in prossimità dell’area interessata, ma ridotto ad un fascio ionizzato da una torcia al plasma e scansionato dallo spettrometro di massa dopo essere stato “suddiviso” da un sistema a quadrupolo elettromagnetico. L’intero percorso del materiale ablato fino alla torcia al plasma avviene in atmosfera controllata satura di gas inerte. Si tratta dello strumento ultimativo nell’ambito della chimica analitica e, fino a pochi anni fa, del tutto assente dall’arsenale tecnologico dei laboratori gemmologici (Figura 9). I costi di acquisto e gestione di un apparato simile sono talmente elevati che solo pochissimi laboratori gemmologici al mondo possono dotarsene. Nei casi in cui questo non sia possibile si ricorre a convenzioni con dipartimenti universitari.

Fig. 9 – Spettrometro di Massa LA-ICP-MS. A sinistra è riconoscibile l’unità di ablazione laser. Al centro il modulo ICP-MS dove il materiale vaporizzato viene ionizzato e successivamente analizzato. (Fonte immagine: http://www.es.utoronto.ca/magmatic/facilities/la-icpms/)

Conclusioni

Quelle descritte in questa piccola rassegna sono, a nostro parere, le metodologie di indagine avanzata più comuni in uso nei moderni laboratori gemmologici. Per ragioni di spazio dedicheremo la trattazione delle singole applicazioni gemmologiche agli articoli specifici che seguiranno nei prossimi numeri. Una cosa è comunque chiara: non esiste sinora (ed, a nostro parere, mai esisterà) la famosissima e continuamente evocata “black (magic) box”, vale a dire una sola strumentazione capace automaticamente di risolvere tutte le problematiche gemmologiche, anzi. Se ben si osserva il trend che si sta ormai delineando da qualche anno a questa parte, le sfide che si stanno accavallando con sempre maggior frequenza possono essere accettate e vinte esclusivamente se si prende atto della necessità di un continuo aggiornamento delle conoscenze, anche e soprattutto strumentali.

 

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A cura di Alberto Scarani, pubblicato su Rivista Italiana di Gemmologia n. 0, Gennaio 2017.

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