venerdì, Aprile 19, 2024
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Diamanti di un emisfero etico. Il caso Canada

Dopo tanta ricerca la ricchezza improvvisa

Chuck Fipke e Stewart Blusson nel 1991 divennero dei geologi fortunati. Erano anni infatti che fiutavano l’occasione giusta. Tutto accadde allorché rinvennero camini kimberlitici a 300 km a nord-est di Yellowknife. Di lì si attivarono i primi pozzi diamantiferi canadesi di Ekati, inaugurati da BHPz Billiton. Ciascuno dei due conservò il 10% del valore in azioni fino al 2014. A cavallo tra i millenni si concretizzò nell’Ontario, nei Territori Nord Occidentali, a Nunavut una vera e propria corsa ai diamanti del Nuovo Mondo. Diavik, posseduta da Dominion in collaborazione con Rio Tinto, è la seconda e più promettente area diamantifera canadese con ulteriori linee estrattive che si metteranno in moto nel 2018. Gli esiti positivi delle prospezioni hanno causato una reazione a catena che non ha mancato di attirare De Beers, che opera nei siti di Victor Mine (Ontario) e di Snap Lake (NWT). Sin dalle prime fasi di sviluppo la valorizzazione dei depositi canadesi si è basata sulla possibilità di costruire un’immagine contrapposta a quella dei tanto controversi diamanti dell’Africa Subsahariana, una regione da dove sono state riportate problematiche serie relative ad abusi su condizioni di lavoro, finanziamenti di conflitti e sfruttamento indiscriminato. Le gemme canadesi affioravano proprio negli anni del clamore delle denunce delle ONG che reclamavano il varo di politiche transnazionali di contrasto al finanziamento di armi con diamanti in Angola. La contemporaneità degli eventi – allarme etico/Schema di Kimberley e lancio delle pietre canadesi – ha finito per caratterizzare i diamanti americani come gemme senza macchia, frutti sani di una gestione onesta e rispettosa delle parti che solo una democrazia dotata di un sistema economico avanzato può garantire.

Fig. 1 – La miniera di diamanti di Diavik, Northen Western Territories, Canada.

Bisognava infatti procedere con cautele ambientali e sociali, finanziare e pianificare l’insediamento degli addetti in aree intatte e inaccessibili dove le temperature polari rendono gravoso stabilire infrastrutture e servizi. Le condizioni proibitive, la delicatezza di un ecosistema intatto, i diritti dei nativi (il 40% della forza lavoro addetta) hanno determinato delle condizioni oggettive di difficoltà. Ma nello stesso tempo ciò ha messo in luce, in un Paese sviluppato e dotato di risorse come il Canada, la capacità di assumere pratiche rispettose delle parti coinvolte nonché di saper regolamentare rigorosamente l’impatto delle attività estrattive sul territorio.

I diamanti canadesi nascono sostanzialmente già in un recinto virtuoso che li mostra socialmente responsabili, indirizzati nel filone vincente dell’eco-sostenibilità, della soddisfazione dei bisogni e nel rispetto dei lavoratori, In più, il controllo esercitato sul grezzo ha consentito molto presto al management di ricercare le condizioni per certificare la tracciabilità dalla miniera al mercato. L’intento è ben visibile sin dagli esordi, tanto che Professional Jeweler nel lontano 2003 già titolava: “Comprendere compiutamente il Pedigree Canadese. Come le modalità impiegate dal Canadà nel tracciare e certificare la propria ricchezza mineraria in diamanti detteranno legge in fatto di modalità secondo cui queste gemme verranno considerate a livello mondiale”. Ma in cosa consiste questo plus etico che di fatto è un vantaggio competitivo? Come traccia e certifica il Canada?

Fig. 2 – Misery Pit, miniera di diamanti Ekati, Canada. (Copyright © 2016 Dominion Diamond Corporation)

Il governo dei Northern Western Territories afferra l’opportunità di produrre diamanti con un Pedigree Etico

Il sistema si basa su una cabina di regia in grado di perseguire una direzione strategica. Lo sviluppo oneroso di centinaia di km di infrastrutture stradali, sfruttabili per poche settimane all’anno, gli investimenti massicci necessari alla messa in funzione l’estrazione, il know how così specialistico sono tutti elementi che spingono negli anni novanta il Governo canadese dei Northern Western Territories ad intervenire da capofila in una serie di operazioni che favoriscono la cooperazione tra interessi pubblici e investimenti privati. Ci si dota di una legislazione e di una regolamentazione mineraria particolarmente flessibile, capace d’attenuare i rischi e quindi di attirare le risorse delle grandi imprese. In questo modo si possono ripagare gli investimenti infrastrutturali. Il materiale estratto viene selezionato in due strutture della capitale, Yellowknife (Dominion Diamond Corporation ex BHP Billiton per il materiale di Ekati e Diavik Diamond Mine di Rio Tinto e Soci). Una volta saldate le royalties al Governo, una percentuale di circa il 10% del prodotto grezzo viene consegnato per accordo contrattuale a HRA, gruppo di aziende di taglio e lucidatura, stabilitesi sempre a Yellowknife, alle quale viene garantito lo status di ANDM (Approved National Diamond Manufacturer). Ai produttori nazionali di diamanti finiti è dato in concessione anche l’uso del trademark Polar Bear Diamond, ed i diamanti recano così un’iscrizione laser. Ma le autorità governative dei Northern Territories hanno fatto un ulteriore passo nel processo di consolidamento del valore dei diamanti canadesi: aderendo ad un codice di condotta (The Voluntary Code of Conduct for Authenticating Canadian Diamond Claims) si ha la possibilità di autenticare come canadesi tutti i diamanti estratti nel Paese, anche se tagliati e lucidati altrove. Questo consente all’amministrazione governativa di attivare a vantaggio del sistema produttivo una tracciatura con due modalità. Innanzitutto il GNWT Certificate (Produced in Canada, diamanti estratti e tagliati in Canada) proclama quella qualifica etica che oggi è senza dubbio decisiva: tutti i passaggi sono verificati e rintracciabili, dalla miniera alla politura. La seconda modalità è il Canadian Diamond Authentication Process (Made in Canada è uno status esteso a tutti i diamanti estratti nel paese, anche se lavorati oltre confine) mediante il quale una serie di passaggi garantisce che le pietre canadesi riconsegnate dopo il taglio fuori dal Paese corrispondano esattamente ai lotti di grezzo esportato per la lavorazione.

Fig. 3 – Il “Diavik Foxfire”, il più grande diamante rinvenuto nella miniera canadese di Diavik. Peso: 187,7 carati. (Copyright © 2016 Dominion Diamond Corporation. Photo courtesy of Rio Tinto Diamonds)

I diamanti canadesi, il jolly etico alla base del successo di Brilliant Earth

La fortuna non ha sorriso solo ai due geologi scopritori dei ricchi camini kimberlitici canadesi. Il meticoloso lavoro dei responsabili governativi è stato in grado di dotare i diamanti del Northern Territories di credenziali assai incisive ed ambite – se paragonate alle altre – per quanto riguarda la tracciabilità. E ciò ha favorito il progetto di due ex studenti di Stanford, Beth Gerstein ed Eric Grossberg, i quali fondano nel 2005 Brilliant Earth. Si tratta di un’azienda che commercia in gioielleria conflict free realizzata con diamanti all’inizio esclusivamente provenienti dalle miniere di Ekati e Diavik. Il successo premia la scommessa di questi giovani californiani: i tempi sono maturi per soddisfare, con i prodotti in regola, quella nuova richiesta di diamanti con fasi di lavorazione esenti da interventi di abuso o di sfruttamento. L’intuizione di Brilliant Earth è giusta, in poco più di un decennio la Company che aveva puntato sui diamanti canadesi si ramifica, macina fatturato, si quota in borsa e mostra di poter competere con i più prestigiosi operatori dei gioielli americani. Brilliant Earth è anche particolarmente attiva online con proposte alquanto massicce di diamanti sciolti con indicazione d’origine canadese. Con quale modalità? Il “Product of Canada”? No, il diamante estratto e tagliato nel Paese (a costi più elevati della media) rappresenta una frazione poco importante del prodotto disponibile. La procedura prescelta è la seconda modalità di tracciamento, il Made in Canada, quella che vuol semplicemente significare “estratto in Canada”.

Fig. 4 – Il blog di Jacob Avital (in arte Worth) che ha messo in discussione l’impianto etico di Brilliant Earth e che gli è costato un’azione legale. Nel video si contesta l’origine canadese dei diamanti messi in vendita.

Un video virale mette sotto accusa l’autenticazione geografica dei diamanti di Brilliant Earth

Il brand Made in Canada dei diamanti funziona bene per tutti i soggetti – non solo Brilliant Earth – che nel commercio dei gioielli possono così proporsi concretamente con una spiccata vocazione etica. Ma un fatto nuovo accade nel maggio del 2017, quando Jacob Avital, un operatore statunitense nel ramo del riacquisto di gioielleria usata, proprietario di un’azienda denominata “I Want What It’s Worth” (letteralmente, “Voglio Quel Che Vale”) , manda in rete un video dal titolo “The Brilliant Earth Diamond Scam” (La Truffa del Diamante della Brilliant Earth) . Si tratta di una requisitoria alquanto articolata che mette in dubbio la conclamata origine canadese dei diamanti venduti dell’azienda californiana. Worth ordina un diamante da Brilliant Earth e procede ad una serie di constatazioni. Innanzitutto la gemma ha, dal punto di vista gemmologico, un certificato GIA, ma come corredo di provenienza tracciata non offre che una semplice dichiarazione unilaterale priva di un’autenticazione registrata e verificabile. Inoltre, il produttore indicato da Brilliant Earth, a cui il diamante montato su anello è stato restituito, ha dichiarato di non essere in grado di garantire la provenienza canadese. Il database delle pietre poste in vendita si avvale di un gran numero di intermediari, in maggioranza di Mumbai (India), ai quali la piattaforma di aggancia per incrementare il proprio magazzino. Worth nota che intere liste di merce con numero di identificazione gemmologica univoca (in pratica le stesse pietre) sono presenti contemporaneamente sia sulla piattaforma di Brilliant Earth che su quella di Blue Nile, altro grande operatore commerciale su piattaforma informatica. Mentre la lista di Brilliant Earth insiste sulla qualificazione dell’origine canadese, Blue Nile vende le stesse pietre senza precisarne l’origine ma a prezzi più bassi. Tale rinuncia alla titolazione etica pare a Worth sospetta. Questi diamanti, se davvero posseggono quelle credenziali etiche certe ed inoppugnabili che tanto piacciono ai nuovi consumatori, non dovrebbero essere commercializzati da tutti giocando opportunamente la carta vincente delle certificazione di provenienza? Perché Brilliant Earth, tanto coinvolta nel processo che deve rassicurare i passaggi di fornitura, non sottoscrive il Codice di Condotta che aprirebbe l’autostrada etica predisposta dalle autorità governative? Molti intermediari intervistati da Worth e successivamente da Bryan Clark, autore di una successiva inchiesta per conto di TNW, negano di poter garantire l’origine canadese delle pietre vendute, per poi ribaltare la propria opinione dopo alcuni giorni. Il video diventa virale, conta al momento in cui scriviamo quasi 800.000 visualizzazioni e mette in discussione l’attività commerciale principale di Brilliant Earth. La reazione non si fa attendere: “Dal momento che la trasparenza e la fornitura etica rivestono un ruolo così centrale nella nostra missione commerciale, lo scorso anno abbiamo affidato ad una parte terza indipendente il compito di condurre una verifica atta a certificare l’origine dei nostri diamanti. La verifica, condotta dalla SCS Global Services, ha accertato – esaminando i diamanti da noi posti in vendita – che tutte le pietre così esaminate risultano rintracciabili, per quanto attiene la loro origine”. Dunque già nel 2016, prima che il video inchiesta mettesse in discussione l’effettiva provenienza canadese dei suoi diamanti, Brilliant Earth aveva scelto di mettersi in proprio. Per rivendicare in proprio il seducente titolo di diamante canadese fa ricorso ad un audit (verifica certificata) di terza parte servendosi di SCS Global Services, un’impresa californiana che collabora nel campo della tracciabilità dei diamanti con RJC. Si tratta sostanzialmente di una verifica formale delle scritture contrattuali e delle transazioni con i propri fornitori, una procedura standard degli audits finalizzati al controllo della diligenza della catena di fornitura. Il codice governativo, già generosamente predisposto alla generazione marchi viene quindi accantonato? Se sì, quali possono essere le motivazioni? Si deve pensare che le maglie del Codice sono troppo strette e si è immaginata una scorciatoia?

Fig. 5 – Estrazione di superficie nella miniera canadese di Ekati. (Copyright © 2016 Dominion Diamond Corporation)
Fig. 6 – Estrazione sotterranea nella miniera canadese di Ekati. (Copyright © 2016 Dominion Diamond Corporation)

Tutti i diamanti possono essere etici, ma alcuni sono più etici degli altri

Si sta accendendo una contesa legale tra Brilliant Earth, che lo ha citato per danni nel luglio 2017, ed il suo detrattore. Avital è peraltro un imprenditore del ramo, e quindi potrebbe avere interessi aziendali precisi. Ormai siamo alla cronaca giudiziaria e ciò rischia di far divergere l’analisi dalle questioni principali: come viene generata la potenza del richiamo etico del diamante “Made in Canada”? Su quali base di legittimazione? Ma prima occorre fare un salto indietro. Ogni diamante che acquistiamo in modo legittimo in qualunque gioielleria del mondo, sulla carta ha già il timbro della diligenza richiesta dal KPS, lo schema di Kimberley che dà il segnale di via libera a quei Paesi produttori di grezzo che adempiono correttamente alle procedure richieste. Molto controverso è il giudizio sul successo o sul fallimento (basti citare l’abbandono clamoroso di Global Witness) della procedura attivata dal Kimberley Process. Ma qui interessa un altro punto: i diamanti con passaporto Kimberley hanno uguale dignità e valore etico indipendentemente dall’area geografica di provenienza. Le autorità governative canadesi, che per prime hanno riflettuto sulle modalità di attestazione della congruità dei propri diamanti alle procedure di Responsabilità Sociale, non si sono limitate ad una strategia di semplice e generica attestazione del corretto processo di produzione, della compliance (adesione in conformità) con il KP. Hanno invece insistito sin dagli esordi sulla promozione dell’origine geografica. Eppure, a ben vedere, dal momento che il 90% del grezzo deve essere spedito altrove per le fasi di taglio e lucidatura, il diamante canadese si trova strutturalmente nella stessa posizione – tanto per fare due esempi generici tra i tanti – di quello russo o di quello, mettiamo, del Botswana. Analogamente possiamo cioè verificare che l’estrazione in questi Paesi è stata responsabile, ma poi, tutti i grezzi (canadesi e non) vanno immessi nella catena di fornitura transnazionale. E qui si riparte tutti da capo, perché si dovrà dar prova – in una fase di lavorazione nuova – d’essere diligente a Mumbai o a Tel Aviv, sia che si taglino diamanti canadesi che del Congo. Alla fine del ciclo le vetrine di gioielleria portano i diamanti al consumo geograficamente indistinti. Nessuno ha pensato che sia utile come credenziale di responsabilità sociale risalire ad una targa d’origine russa o del Botswana. Il Canadian Diamond Authentication Process provvede invece a fornire un attributo aggiuntivo che dovrebbe suonare eticamente neutrale: queste pietre, oltre ad essere in regola con lo Schema di Kimberley (unico obbligo, richiesto ormai come standard), oltre ad essere tagliate nel rispetto delle regole, sono pure canadesi (informazione aggiuntiva). Ciò pone un problema di significazione poiché si valica il punto di confine tra CSR (soddisfazione di valori immateriali) e marketing (penetrazione del mercato per massimizzare gli utili). Non ci si concentra più sull’elaborazione di sistemi normativi condivisi di Responsabilità Sociale per garantire la diligenza del ciclo produttivo. Piuttosto si procede ad applicare quelle nuove forme di branding (marchiatura) territoriale che alcuni studiosi non esitano a definire “commodity racism (razzismo mercantile)”. Il Canada bianco, immacolato, polare, puro, innocente, responsabile ed intatto – secondo questi studiosi – viene contrapposto al rosso feroce dei blood diamonds (diamanti insanguinati), al nero tenebroso dei temibili territori subsahariani. Il diamante canadese in tale ottica potrebbe significare semplicemente questo: non africano, quindi in grado di esimere l’affaticata macchina della legittimazione dal dispendioso lavoro di riconoscimento di pratiche corrette, percorsi tracciati, impatti ambientali sostenibili. Tutte cose che si dovrebbero andare a fare nell’impenetrabile giungla di ombre, di traffici promiscui, di frontiere insicure, di conflitti ed insidie, zanzare e coccodrilli del Continente Nero.

Fig. 7 – La Dichiarazione di SCS certifica che la documentazione a sostegno delle transazioni di diamanti riporta correttamente l’origine canadese.
Fig. 8 – Il marchio di garanzia CanadaMark™ assicura l’integrità della catena distributiva dei diamanti certificati canadesi, dalla miniera al rivenditore finale. (Copyright © 2016 Dominion Diamond Corporation)

Le piante etiche ed i rampicanti del marketing

Lo studio del processo di eticizzazione (ethicalization) dei diamanti canadesi, così come lo vedono geografi ed economisti, è assai interessante. Lo di dovrà tenere in considerazione ma in questa sede ci porterebbe troppo lontano. Qui conviene riportare la lente sulle procedure di legittimazione che i diamanti canadesi hanno attivato a più stadi. Il processo è messo in moto dalle autorità di Governo, i responsabili politici del grande Paese nordamericano che lavorano sull’autenticazione codificata e configurano i diamanti canadesi come paradigma di gemme estratte con maggiori costi e lavorate responsabilmente. Ciò comporta un accrescimento del valore etico che ammorta più rapidamente gli oneri di investimento. Il maggior costo è sostenuto volentieri dai consumatori più sensibili alla materia, come dimostra il successo di Brilliant Earth. Lo si ammette con dichiarazioni ufficiali: è vero, sono più cari, ma si paga la certezza del Fair Trade (Commercio Equo e Solidale). Ma questo Fair Trade può manifestarsi al pubblico solo con un preciso tipo di posizionamento di marketing etico basato sulla costruzione di due immagini polarizzate: l’identità canadese esprimerà positività e equità quanto più sarà in contrasto con quella dei diamanti africani, percepiti o fatti percepire come gemme prodotte in condizioni di instabilità e opacità. Tale percezione è superficiale, generica se non errata del tutto. È frutto di pregiudizi o di approssimazione poiché le realtà produttive africane sono molteplici e tanti Paesi africani oggi offrono avanzate garanzie nella catena produttiva e pratiche diligenti di tracciabilità. La stessa Brilliant Earth, per bilanciare l’iniziale enfasi tutta incentrata sui diamanti canadesi, ha iniziato a proporre diamanti del Botswana come esempio di gemme a fornitura responsabile. Il gioco del sistema di autenticazione del governo canadese, se è pure vero che offre assists vantaggiosi alla finalizzazione commerciale, non può essere certo considerato però tecnicamente approssimativo o frettoloso. I passaggi sono regolati, i controlli sono effettuati, il consumatore può in qualunque momento richiedere verifiche. È il fine – come s’è visto – su cui si può eccepire, cioè l’affermazione di sé grazie all’esclusione dell’altro. Ma il mezzo, il Codice, sembra possa essere considerato un esempio valido di tracciabilità della Filiera di Fornitura (Supply Chain). Ecco perché stupisce che si ricorra ancora ad autenticarsi i diamanti per conto proprio, azienda per azienda con audits (verifiche) tradizionali di terze parti. Questo è un sistema alquanto stagionato e spesso criticato dagli specialisti: si registrano controlli di un solo verificatore, chiamato e pagato dal committente, il cui ruolo non consiste in altro che girare le carte per restituirle timbrate dopo un check formale. In fondo il nodo cruciale è sempre lo stesso. Non esiste un raccordo tra le parti chiamate alla certificazione etica: Governi, Enti, aziende, ONG, tutti recitano un copione autoreferenziale in un porto di ombre nel quale le piante dell’etica ed i rampicanti del marketing si intrecciano in un abbraccio dal quale è difficile districarli.

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A cura di Paolo Minieri, pubblicato su Rivista Italiana di Gemmologia n. 2, Settembre 2017.

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