giovedì, Marzo 28, 2024
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La lenta agonia del Kimberley Process. L’etica ai tempi del Covid-19

Nella fase acuta di decrescita, l’economia mondiale avrà ancora voglia di domandarsi se i diamanti grezzi arrivino veramente alla fase di taglio senza alcuna macchia di sangue? Il Kimberley Process (KP), quello che oggi è il più importante impegno internazionale di responsabilità sulla fornitura di pietre preziose (vedi “Box 1 – Come funziona il processo di Kimberley? I diamanti grezzi possono essere commerciati solo dalle nazioni partecipanti”) è in crisi e non garantisce più l’integrità della catena di fornitura? Sarà sostituito da altri strumenti per la tracciabilità, come le blockchain? Quello che sappiamo ormai è che dopo quasi due decenni questo elaborato e complesso meccanismo di cooperazione tra governi, che implementa uno schema di certificazione (KPCS) per l’import/export dei diamanti grezzi, ha cominciato a mostrare delle crepe. Sostanziali modifiche sono state invocate nel 2016 durante l’Intersessional Meeting del KP, sotto la direzione australiana. Nell’opinione pubblica da un po’ serpeggiava scetticismo su quali fossero i risultati dello schema. I membri hanno dato allora inizio ad un ciclo triennale di lavoro col proposito preciso di migliorare il sistema di certificazione dei diamanti grezzi. Era l’ultima chiamata per far volare il progetto di legittimità del diamond sourcing. Come vedremo non è andata bene. Oggi il tempo è scaduto, e con il mondo sottosopra per il COVID-19, l’impostazione dei comportamenti etici deve trovare velocemente una nuova strada. Il KP è sempre più a rischio.

Fig. 1 – Minatori al lavoro nella miniera di diamanti di Kimberley, in Sudafrica, approssimativamente tra il 1890 ed il 1905. (Foto: Frank and Frances Carpenter Collection)
Box 1 – Come funziona il processo di Kimberley? I diamanti grezzi possono essere commerciati solo dalle nazioni partecipanti

L’esportazione e l’importazione di diamanti grezzi possono avvenire solo tra i paesi partecipanti. Questo è il principio base che ispira il Kimberley Process Certification Scheme. Ogni spedizione di diamanti grezzi, al momento dell’esportazione, deve essere accompagnata da documenti adeguati, forniti dall’autorità legittima nel paese di origine e costituiti da un certificato che osserva standard minimi condivisi. Dato che il resto delle disposizioni che regolano i certificati è lasciato a discrezione dei diversi paesi e varia a seconda delle implementazioni a livello nazionale, a determinare le sanzioni saranno le leggi di ciascun paese partecipante.

Il KPCS non ha un proprio segretario generale, un proprio budget o personale proprio. Ha un presidente, eletto a rotazione su base annuale in una riunione plenaria, con compiti politici e amministrativi e che provvede alla maggior parte dei costi del sistema, con il sostegno volontario fornito dal resto dei partecipanti. Questi dovranno riferire all’Ufficio di Presidenza in merito all’implementazione nazionale del KPSC. Finora sono stati in carica Sudafrica, Canada, Russia, Botswana, Unione Europea, India, Namibia, Israele, Repubblica Democratica del Congo, Stati Uniti d’America, Sudafrica, Repubblica di Cina, Angola, Emirati Arabi Uniti, Australia e India.

Fig. 2 – Organigramma del KPCS. Facendo riferimento al presidente, 3 gruppi di lavoro presieduti dagli stati partecipanti sono incaricati di: 1) Monitoraggio, 2) Statistiche, 3) Produzione artigianale e alluvionale. Un quarto gruppo di lavoro, su questioni tecniche relative al diamante, è presieduto, per le proprie competenze tecniche in materia, dal World Diamond Council.
Fig. 3 – Organigramma del KPCS. Facendo riferimento al presidente, 3 gruppi di lavoro presieduti dagli stati partecipanti sono incaricati di: 1) Monitoraggio, 2) Statistiche, 3) Produzione artigianale e alluvionale. Un quarto gruppo di lavoro, su questioni tecniche relative al diamante, è presieduto, per le proprie competenze tecniche in materia, dal World Diamond Council.
Gli abusi si manifestano solo con le guerre civili? Se non è così a Delhi s’è persa l’opportunità di riformare il KP

Il momento della verità è finalmente arrivato. I tre anni sono passati ed ecco che oggi inesorabilmente tutti i nodi sono arrivati al pettine. L’appuntamento era stato fissato a New Delhi nel novembre 2019 in occasione del Plenary Meeting del KP. I punti all’ordine del giorno come al solito erano numerosi, la macchina diplomatica è un giocattolo complesso fatto di commissioni che devono mettere d’accordo 82 nazioni partecipanti in un regime basato sull’unanimità.

Ma, al di là degli ordinari dettagli amministrativi su questioni non sostanziali, tutti sapevano che l’attesa era relativa ad un punto preciso. Il nodo centrale del dibattito era e resta la questione della possibile estensione della definizione di conflict diamonds. Infatti, così come si stanno mettendo le cose negli ultimi anni, il processo di eliminazione dal mercato dei diamanti grezzi collegati a soprusi, sopraffazioni e illegalità mostra maglie troppo larghe. S’è diffusa la convinzione che durante l’estrazione, assieme ai diamanti, il setaccio lasci passare, a danno dei civili e dell’ambiente, ingiustizie e violenze che l’ordinamento attuale non permette di sanzionare.

Il cuore della riforma che si sta invocando sta proprio nella necessità di superare una definizione troppo ristretta di “conflict diamond”, risalente a vent’anni fa, sotto la quale ricadono quei diamanti “usati da movimenti di ribelli o da loro alleati per finanziare conflitti allo scopo di indebolire governi legittimi”. Il nuovo millennio ha dimostrato che tale limitazione dell’ambito KP è obsoleta. Ma perché il campo di azione è così ridotto? Ciò può essere spiegato risalendo al contesto iniziale in cui il KP è nato, caratterizzato da guerre civili africane sparse ed in assenza di governi centrali riconosciuti e legittimi (vedi “Box 2 – Guerre civili africane negli anni ‘90. Ecco perché è stato istituito il Kimberley Process”). Quella era sola punta di un grande iceberg fatto di criticità lungo il percorso di fornitura, così numerose che i tavoli negoziali che dovevano portare allo schema originale, ne erano ingombrati. L’edificazione del KP richiese uno sforzo ingente nel campo del diritto internazionale e nel 2003 non si sarebbe potuto raggiungere uno spettro legale più ampio. Perseguire tutti i casi di innegabili ingiustizie legate all’origine dello sfruttamento di questa pietra preziosa sarebbe stata un’utopia.

Lo shock dell’11 settembre e la conseguente necessità di una pronta reazione contro il terrorismo, che secondo quanto riferito era alimentato anche da vendite illegali di pietre preziose, hanno fatto sì che ci si concentrasse su un’area specifica e ristretta di intervento. Vennero inevitabilmente così trascurati molti tipi di soprusi, come i danni ambientali, la violenza sessuale, la tortura o i trattamenti disumani perpetrati contro le comunità locali dalle forze armate governative che operano nei territori delle materie prime.

Questi abusi nascosti che, negli anni, non sono evaporati per il semplice fatto di non essere stati inclusi nella missione inevitabilmente limitata del KP, hanno avuto ugualmente un impatto negativo sull’industria dei diamanti perché questa si è accontentata di precisare che non erano collegati al finanziamento di guerre contro governi legittimi. In altre parole, per come il sistema funziona ancora oggi, gli abusi commessi da attori diversi dai ribelli contro i governi riconosciuti non vengono presi in considerazione.

Box 2 – Guerre civili africane negli anni ‘90. Ecco perché è stato istituito il Kimberley Process (KP)

Negli anni ‘90 divenne poi evidente che la sanguinosa guerra civile post coloniale in Angola tra due grandi gruppi contendenti era di fatto alimentata da trafficanti di diamanti che sostenevano l’azione della fazione UNITA contro il FRELIMO. Ciò ha attirato l’attenzione della ONG Global Witness che non tardò a pubblicare un preciso rapporto che accusava le società private, tra cui De Beers, di fare affari utilizzando quelli che presero d’allora la denominazione di “diamanti da conflitto”. Nel commercio di diamanti grezzi per finanziare guerre furono mostrate in seguito prove del coinvolgimento di altri paesi africani, come Sierra Leone, RDC (Repubblica Democratica del Congo), Costa d’Avorio e Liberia.

Sotto pressione di una risoluzione U.N. che sollecitava l’uso di certificati di origine e temendo che le campagne delle ONG avrebbero finito per rovinare l’immagine della gemma, l’industria dei diamanti all’inizio del nuovo millennio s’è di colpo resa conto che occorreva reagire. Fu quindi istituito il World Diamond Council nel tentativo di implementare un primo sistema volontario di certificazione che comprendeva il certificato “conflict free” a sostegno di un sistema di regolamentazione dell’importazione ed dell’esportazione di diamanti, controllato a livello intergovernativo.

Fig. 4 – Tra il 1992 e il 1998 i ribelli dell’UNITA, commerciando diamanti hanno incassato, secondo le stime delle Nazioni Unite, dai tre ai quattro miliardi di dollari. Eppure nonostante le prime misure i diamanti illegali provenienti dall’Angola erano ancora disponibili ad Anversa grazie alle triangolazioni che coinvolgono altri stati. I primi passi verso un certificato non erano sufficienti. (Foto: legionantiques.com)
La delusione dopo le aspettative. La crisi del KP viene da lontano, dal meccanismo tripartito che evidenzia interessi in conflitto

Sembrava possibile fare qualcosa. Ma che ne è venuto fuori? L’assemblea Plenaria del processo di Kimberley (KP), sotto la presidenza indiana a Delhi, è stata uno spettacolo triste e surreale. Gli 82 Stati partecipanti si sono persi in discussioni strazianti su regole, procedure e banalità poiché non potevano che concordare solo sul fatto che, di fatto, non erano d’accordo su nulla di sostanziale”.

Non si potrebbe rappresentare con parole più esplicite l’ammissione del fallimento delle riforme. Queste parole pesano particolarmente perché a fine 2019 non è un giornalista o un commentatore qualsiasi a pronunciarle ma Shamiso Mtisi, coordinatore della Civil Society Coalition (CSC) del KP, con base operativa nello Zimbabwe. È il caso di ricordare che il Kimberley Process poggia, oltre che sui paesi membri e sulle rispettive implementazioni legislative nazionali, anche su altri due pilastri (vedi “Box 3 – Il “consenso tripartito” o “consenso dinamico”. L’industria e le ONG fanno parte del KPCS”). Il primo è la società civile (CSC), rappresentata dalle ONG, il cui ruolo è stato riaffermato in una risoluzione delle Nazioni Unite adottata dall’Assemblea Generale il 1º marzo 2019. La seconda gamba è costituita dall’industria, rappresentata dal WDC (World Diamond Council). Ed anche il presidente del WDC Stephane Fishler è stato realista ed ha ammesso che “…il fallimento del processo politico per raggiungere un accordo è stata un’occasione perduta per rafforzare l’efficacia di queste che sono le fondamenta dell’integrità del business dei diamanti”.

Box 3 – Il “consenso tripartito” o “consenso dinamico”. L’industria e le ONG fanno parte del KPCS

Il KPCS è tecnicamente definito dagli specialisti come una soft law, strumento internazionale non legalmente vincolante come un trattato, ma di applicazione internazionale generale e ampia in grado di promuovere le norme in uno schema (altri strumenti dello stesso tipo sono ad esempio le linee guida, i principi, le dichiarazioni congiunte, i codici di prassi, le raccomandazioni ed i programmi, le decisioni). Questo schema viene poi implementato e recepito dalle giurisdizioni nazionali. Qualsiasi legislazione specifica avrebbe richiesto molto tempo per essere sviluppata nel sistema giurisdizionale di ogni singolo paese partecipante.

Pertanto, una volta che s’è raggiunto accordo sui principi, un paese che non osservasse le disposizioni del KPCS può essere isolato dagli altri e, in definitiva, può essere messo nell’impossibilità di negoziare diamanti grezzi, anche se nel KPCS non si prevede che alcun paese possa formalmente esser sospeso.

In un quadro caratterizzato da disposizioni applicabili su base volontaria, le decisioni non possono che essere prese dai partecipanti per consenso, tenendo in considerazione le indicazioni delle ONG, che non hanno diritto di voto.

Fig. 5 – L’inchiesta di Global Witness da cui tutto è partito. Nonostante le ONG detengano un ruolo formalmente solo consultivo, in pratica, assieme ai rappresentanti del comparto, sono estremamente influenti lungo l’iter decisionale. Nel 2006, il processo di Kimberley ha aperto ancor più al terzo settore, istituendo la Civil Society Coalition. In tal modo altre ONG hanno aderito a Partnership Africa Canada e Global Witness, le prime NGO a partecipare. (Foto: Global Witness)

Il progetto riformista di Delhi è stato dunque un fiasco per ammissione di tutti, anche dall’interno del KP. Ma perché è così importante e decisivo il giudizio degli imprenditori e delle parti sociali? Dobbiamo ancora una volta tornare al clima del 2003 nel quale prese vita il KP che in effetti non è altro che un insieme di linee guida per produrre un certificato di legittimità in grado di rassicurare i consumatori. Si doveva far capire al pubblico dei consumatori di diamanti che con il certificato di Kimberley si comprava in tutta sicurezza (vedi “Box 4 – Anno 2000. Com’è nato il Kimberley Process Certification Scheme”). Per farlo era necessario edificare il primo dispositivo della storia della gioielleria in grado di produrre una risposta di responsabilità all’emergere di una domanda etica da parte del mercato.

Box 4 – Anno 2000. Com’è nato il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS)

Se le restrizioni commerciali basate sugli accordi internazionali esistenti non si dimostrarono sufficienti, le singole nazioni non potevano certo essere considerate in grado di reagire efficacemente da sole. L’unica soluzione possibile era una conferenza internazionale, la quale fu prontamente organizzata a Kimberley, in Sudafrica, nel 2000. Si misero intorno ad un tavolo i soggetti rappresentativi allo scopo di studiare le procedure per affrontare la questione dell’irruzione nel mercato di diamanti illegali. Incontri successivi si sono svolti in Sudafrica, Namibia, Russia, Belgio, Regno Unito, Angola e Botswana, ponendo le basi di quello che in seguito fu chiamato il processo di Kimberley. Pertanto, questo non si configurò come un trattato internazionale, ma come una serie di negoziati aperti per raggiungere le regole da adottare nel commercio.

Il processo di Kimberly è stato successivamente incoraggiato e riconosciuto da due risoluzioni delle Nazioni Unite che sollecitavano il coinvolgimento del più ampio raggio d’azione possibile delle parti interessate del settore, e cioè i produttori, i paesi esportatori e gli importatori.

Il punto d’arrivo del processo di costruzione del KP è stato la Dichiarazione di Interlaken del 5 novembre 2002. 37 paesi (oggi 54 in rappresentanza di 81 paesi con l’Unione Europea che conta come singolo membro) assieme, con qualità di osservatori, alle ONG Global Witness e Partnership Africa Canada (PAC) ed al World Diamond Council come rappresentante dell’industria, dettero vita al Kimberley Process Certification Scheme per i diamanti grezzi. Questo soggetto aveva e ha lo scopo di monitorare l’impatto della materia prima sui processi di pace e sicurezza ed evitare che i diamanti da conflitto fossero negoziati in violazione dei diritti umani.

Fig. 6 – In realtà il KPCS non è una legge internazionale ma una procedura volontaria per produrre un certificato che ciascun paese partecipante emette da solo, basandosi sulle proprie leggi e sui propri sistemi di controllo. (Foto: diamondeducation.co.za)

Fino ad allora s’era intervenuto in ottica di legislazioni e di governi nazionali. Ora, nel millennio della globalizzazione, questi non avevano strumenti adeguati per far fronte da soli all’inedito – ed in qualche misura inatteso – bisogno di legittimità. Società interconnesse ed eticamente consapevoli come quelle moderne, sempre più interessate alle pratiche di responsabilità, sono in grado di misurare l’impegno etico come una performance aziendale. Ciò ha rappresentato una vera e propria rivoluzione anche per la gestione delle imprese, chiamate ad applicare i nuovi principi teorizzati dagli economisti già da qualche decennio. La promozione di pratiche di diligenza sociale nei confronti di clienti, fornitori ed impiegati non fu più un opzione di corretti adempimenti e di bonaria filantropia ma ha finito per rappresentare anche un fattore di competitività.

Ma per un’azienda una cosa è garantire trattamenti corretti nei confronti dei propri impiegati a New York, altra cosa è autenticare il discutibile percorso di una materia prima preziosa e minuscola da un continente complesso come quello africano. Inoltre per definizione – è bene sempre ricordarlo – la compliance in ambito di responsabilità sociale (CSR) può essere ottenuta solo in un ambiente dove i soggetti sono posti in una posizione paritaria nella quale nessuno, tantomeno i governi, può più agire da solo. In materia di responsabilità sociale non si decide per decreti del governo. L’insieme delle parti in causa principali – in questo caso l’intreccio di imprese, istituzioni e società civile – legittima il processo di autenticazione etica.

Da questo punto di vista il KP ha funzionato come un laboratorio in cui incubare per la prima volta, proprio su questi tre pilastri, un prodotto di gioielleria proponibile come etico. Ma ben presto la costruzione tripartita è andata in crisi. Global Witness, l’ONG musa ispiratrice del KP e del modello di certificazione, ha lasciato il KP già nel 2011 a seguito della crisi susseguente alla discussa riammissione dei grezzi dell’area di Marange nello Zimbabwe (vedi “Box 5 – Il ritiro di Global Witness dal KPCS e il boicottaggio delle ONG delle riunioni plenarie del 2011 e 2016”).

Fu dunque evidente che, per propria stessa natura – se non vuole contraddire la propria missione – il terzo settore non può scendere a compromessi con i programmi delle imprese, basati solo sulla ricerca dell’incremento di ricavi e di utili. Ed ecco che allora nell’ultimo decennio l’opposizione del gruppo CSC s’è fatta più serrata, nella funzione di organizzazione ombrello delle componenti non business del Kimberley Process, contro l’establishment politico-economico degli stati nazionali che tende a deliberare con disinvoltura quelle decisioni del KP che hanno un impatto decisivo sui flussi di mercato.

Box 5 – Il ritiro di Global Witness dal KPCS e il boicottaggio delle ONG delle riunioni plenarie del 2011 e 2016

Nel 2011, mesi dopo la sessione plenaria, boicottata dal gruppo della Civil Society Coalition che consentiva allo Zimbabwe di riprendere le esportazioni, Global Witness ha lasciato l’iniziativa. Questo è stato sicuramente un momento di grave crisi. Chi ha abbandonato il progetto è stata proprio l’ONG più influente tra le parti civili, quella che ha di fatto avviato il processo di Kimberley.

In una dichiarazione Global Witness ha spiegato che “il rifiuto del Kimberley Process di evolversi, affrontando i chiari legami tra diamanti, violenza e tirannia, lo ha reso sempre più obsoleto”.

Questo episodio ha segnato l’inizio del deterioramento delle relazioni tra la Civil Society Coalition e il KP. Infatti le restanti ONG, con poche risorse, non hanno la stessa esperienza nel campo dei diamanti da conflitti e sono meno in grado di sfidare efficacemente l’industria e i membri di Kimberley. La disputa su come gestire i controversi campi di Marange Diamond nello Zimbabwe ha minato la fiducia reciproca tra industria, stati nazionali e società civile.

Sempre nel 2016 la Civil Society Coalition ha boicottato la proposta di presidenza degli Emirati Arabi Uniti. Questa opposizione, non basata su prove di abusi reali sul terreno come nel caso Marange, riguardava invece la presunta sottovalutazione dei diamanti ufficialmente importati dagli Emirati Arabi Uniti dai paesi africani. Secondo il punto di vista della Civil Society Coalition, ciò rappresentava una cattiva pratica che stava riducendo il profitto di quelli che erano i più deboli tra gli esportatori di diamanti grezzi.

Fig. 7 – “Con una mossa shock il Kimberley Process ha recentemente autorizzato le esportazioni di due imprese che operano nelle controverse aree diamantifere di Marange”. L’accusa può essere trovata nella dichiarazione di uscita dal KP rilasciata da Global Witness. Fondata a Londra nel 1993 da Simon Taylor, Patrick Alley e Charmiane Gooch, Global Witness ha uno staff di 100 persone ed è finanziata da enti di beneficenza, governi e fondazioni. Oltre ai diamanti ha indagato sulla violazione dei diritti umani collegati a legname, cacao, gas, oro e altri minerali. (Foto: Tanzania Media Foundation)
Il buco nero si trova sullo scacchiere africano e coinvolge le forze di sicurezza private di paesi formalmente adempienti al KP

È singolare, ma sono state proprio le varie missioni di studio sul campo da parte ONG partecipanti al KP a mettere quindi in evidenza il crescente buco nero costituito da tutte quelle pratiche violente che non sono sanzionabili a causa del ristretto range dei possibili interventi consentiti dal regime vigente del KP. Tra queste le denunce degli abusi nelle aree diamantifere di Marange sono quelle che hanno funzionato da detonatore (vedi “Box 6 – Il caso Marange. Lo Zimbabwe mette il KP in crisi”).

Va però notato che Marange non è un caso isolato e che tutte queste zone oscure in cui si determinano gli abusi contestati hanno delle caratteristiche comuni. Innanzitutto l’area geografica è il continente africano, lo scacchiere su cui si gioca la corsa alle materie prime del nuovo millennio. Moltissimi paesi africani – ma quasi tutti quelli ricchi di diamanti e di gemme in generale – per il loro sviluppo economico, devono ricorrere all’aiuto tecnologico e finanziario di potenze industriali straniere, avanzate e connesse al mercato e, per ottenerlo, devono negoziare con queste le condizioni di sfruttamento delle proprie ricchezze minerarie, spesso le uniche risorse con cui ottenere in cambio investimenti. Non è un caso che molti incidenti sono conseguenze della repressione violenta e dei respingimenti di intrusi in concessioni territoriali con licenza.

Anche il modo in cui si delineano le accuse mostra similitudini tra i vari paesi: i soprusi ad essere sotto i riflettori sono inizialmente quasi sempre opera delle forze militari degli stati nazionali. Successivamente l’esercizio illegale della forza, spesso brutale, diviene prerogativa della Security privata direttamente o indirettamente dipendente dalle imprese minerarie. C’è una spiegazione di questo slittamento di posizioni nel banco degli accusati: tanto più forte negli ultimi anni s’è fatta la pressione della comunità internazionale per ottenere compliance etica, tanto più spesso il coinvolgimento diretto degli apparati militari nazionali è stato affidato in surroga a milizie generalmente arruolate come forze di Security privata. Un esercito regolare è riconoscibile, e come tale il suo comportamento illegale può comportare conseguenze sotto il profilo del diritto internazionale. Le deviazioni degli apparati di sicurezza privata al contrario, essendo poco riconoscibili e scarsamente perseguibili in sistemi giudiziari inefficienti o collusi, non compromettono formalmente i processi di legittimazione etica come la certificazione di Kimberley, dalla quale formalmente non si può sfuggire.

Box 6 – Il caso Marange. Lo Zimbabwe mette il KP in crisi

Marange è un’area diamantifera alluvionale nello Zimbabwe orientale, inizialmente sottoposta a prospezioni dal 1994 al 2006 da De Beers che ha in seguito ha venduto i diritti al gruppo African Consolidated Resources (ACR) dopo che le relazioni con la leadership del paese s’erano deteriorate. Il governo prese allora il controllo dell’area di concessione sfruttando una società controllata. Ma nel frattempo circa 35.000 minatori artigianali si erano ormai riversati nei campi di Marange senza che all’inizio vi fosse una sostanziale opposizione da parte della polizia. La corsa ai diamanti che ne conseguì provocò disordini e l’esercito causò più di 200 vittime tra i minatori illegali. Le forze armate furono in seguito coinvolte in corruzione, estorsione, stupri, torture, lavoro forzato e contrabbando col vicino Mozambico.

Nel 2009 il KP promosse, su richiesta da parte dalla società civile, una visita sul campo con adeguate indagini per riesaminare la situazione nell’area mineraria di Marange. Questa portò a segnalare che lo Zimbabwe non obbediva ai requisiti minimi del KP. Nel novembre 2009 le autorità del KP hanno allora concordato un piano di lavoro congiunto in base al quale al governo dello Zimbabwe si richiedevano interventi nell’area di Marange per arginare il contrabbando, per legalizzare le attività estrattive su piccola scala e garantire la sicurezza. Nel frattempo, i diamanti di Marange, a causa della non conformità ai requisiti amministrativi di esportazione, sarebbero stati bloccati. Pertanto se il blocco veniva puramente incentrato su inadempienze amministrative, le pur evidenti violazioni dei diritti umani, non incluse nel raggio d’azione del KPCS, non poterono costituire una ragione sufficiente per l’interdizione dal mercato.

Così nel 2011 la presidenza del KP, all’epoca la DRC (Repubblica Democratica del Congo), revocò il divieto e rese nuovamente disponibili sul mercato internazionale i diamanti di Marange. Questa decisione è stata molto controversa perché non era unanime e si basava su solo due siti, tra i tanti non legali, ritenuti conformi agli standard KPCS. Si delineò una situazione per la quale si sarebbe dovuto certificare come rispondenti ai requisiti solo le pietre provenienti da aree ammissibili senza la certezza che quelle delle aree adiacenti fossero adeguatamente separate prima di entrare nel mercato. La revoca del divieto è stata apertamente disapprovata dall’UE, dagli USA, da molte ONG e dal gruppo Rapaport, che ha chiesto di bandirle dalle proprie piattaforme di scambio commerciale.

Fig. 8 – Aree sì ed aree no per esportare. La frammentata rete delle concessioni nell’area di Marange. Il territorio è considerato una dei più ricchi al mondo, produce fino a 3,5 milioni di carati all’anno, ed è ancora una fonte opaca. Negli Stati Uniti i diamanti di Marange sono ancora soggetti a restrizioni per normative diverse dal KPCS. Il gruppo russo Alrosa nel 2019 avrebbe mostrato interesse per lo Zimbabwe, ma le concessioni sfruttabili dovrebbero essere lontane da Marange. (Foto: Global Witness)
Paesi con violazioni impunite. La spada di Damocle sulla legittimità di Kimberley

Nell’area di Marange nello Zimbabwe sono sotto i riflettori degli osservatori internazionali ripetuti episodi riguardanti abusi perpetrati contro i minatori dalla forze private di Security, in territori in cui le vittime, a causa della crisi economica, cercano di stabilirsi alla ricerca disperata di un lavoro (vedi “Box 6 – Il caso Marange. Lo Zimbabwe mette il KP in crisi”). La povertà colpisce ancora pesantemente lo Zimbabwe, nonostante il fatto che il paese nel 2017 abbia esportato 2,5 milioni di carati di diamanti con certificati KP per un valore di 170 milioni di dollari. Si stima che il bilancio annuale sia di almeno 40 persone morte tra i minatori artigianali. Fonti locali sono stati testimoni di casi in cui i minatori, con le mani legate dietro la schiena, sono lasciati alla mercé di cani. Gli attacchi ai minatori nello Zimbabwe hanno continuato a destare preoccupazione, nonostante gli addetti alla sicurezza della ZCDC (Zimbabwe Consolidated Diamond Company), per mezzo di corsi di formazione, siano stati sensibilizzati ai temi dei diritti umani e nonostante due conferenze sulla sicurezza dei diamanti, tenute tra il 2018 e l’inizio del 2019.

L’Angola presenta le stesse condizioni di presunte violenze nelle aree d’estrazione di diamanti. Di ciò aveva parlato nel 2015 nell’inchiesta Blood Diamonds: Corruption and Torture in Angola Rafael Marques de Morais, rinomato difensore angolano dei diritti civili nonché giornalista investigativo, direttore dal 2008 dell’organizzazione anticorruzione Maka Angola. Nel suo testo descrive abusi e violazioni dei diritti umani commesse dalle guardie della Security e dai soldati nell’area diamantifera di Lunda e Cubango. Marques de Morais presume che almeno sette generali comproprietari di una compagnia di sicurezza privata siano responsabili penalmente di abusi contro i minatori. Nelle prime pagine Marques De Morais afferma che “secondo qualsiasi definizione oggettiva, i diamanti estratti in queste aree sono diamanti insanguinati e commerciare con l’industria dei diamanti angolana vuol dire indiscutibilmente commerciare diamanti insanguinati. Dopo aver ignorato il problema per anni, la comunità internazionale dovrebbe riconoscere questo fatto e agire”.

Fig. 9 – Alcune immagini delle violenze perpretrate da guardie di sicurezza private nei confronti di alcuni minatori artigianali a Lunda Norte, in Angola. La foto si riferisce ad un evento del 2016. (Foto: Maka Angola)
Fig. 10 – Alcune immagini delle violenze perpretrate da guardie di sicurezza private nei confronti di alcuni minatori artigianali a Lunda Norte, in Angola. La  foto si riferisce ad un evento del 2014. (Foto: Maka Angola)

Al momento della sua uscita, il libro, molto ricco di documentazione e ora disponibile online, ha suscitato grande attenzione guadagnando titoli sulla stampa internazionale. Tuttavia, ciò non ha impedito alle autorità angolane di comminare al giornalista, già precedentemente arrestato in seguito alle sue denunce contro la corruzione e per aver descritto il presidente Dos Santos come un dittatore, un periodo di sei mesi di carcere con condizionale per diffamazione di generali dell’esercito. Il caso di Dos Santos, nonostante il giornalista sia stato insignito dall’International Press Institute (IPI) come 70° World Press Freedom Hero, non sembra abbia risuonato in modo significativo nel dibattito sulla riforma del KP.

Anche in Tanzania, a Mwadui nella regione di Shinyanga, nell’area mineraria di diamanti Williamson, gestita dalla società quotata a Londra Petra Diamonds, che l’aveva rilevata da De Beers nel 2009, sono stati segnalati casi di intrusione da parte della popolazione locale che cerca di alleviare in qualche modo la propria condizione di estrema indigenza entrando illegalmente nell’area su cui l’azienda ha acquisito diritti. Si presume che qui la sicurezza privata abbia perpetrato omicidi e aggressioni contro gli intrusi e da tempo nell’area si segnalano morti, feriti, sparizioni e detenzioni.

Un’indagine del parlamento tanzaniano sul settore delle miniere di diamanti ha poi posto in evidenza gravi irregolarità in merito al contratto, alla licenza e alla valutazione dei diamanti da parte di Petra Diamonds. Una spedizione di 71.000 carati da Petra Diamonds verso il Belgio è stata confiscata all’aeroporto di Dar Es-Salam nel 2017 con l’accusa di sottodichiarazione del valore.

Altro capitolo aperto è quello delle questioni collegate ai danni ambientali sopportati dagli abitanti dei territori che circondano le aree di reperimento dei diamanti. Anche questi sfuggono all’elenco degli inconvenienti che il KP indica come punibili anche se è innegabile che arrechino una cattiva reputazione all’intero settore dei diamanti.

Ad esempio, si presume che la contaminazione dell’acqua dalla miniera di diamanti Letseng di Gem Diamonds nel Lesotho causi gravi danni alle zone umide attigue usate per agricoltura ed allevamento di bestiame, costringendo così gli abitanti insediati a disputarsi l’accesso all’acqua pulita, sempre più scarsa a causa della presunta contaminazione da parte della miniera.

In Sierra Leone, alcune comunità, che protestano dal 2007, sono colpite dalla contaminazione di aria e acqua di pozzo e vedono i propri mezzi di sussistenza, le colture e le proprie abitazioni distrutte, presumibilmente a causa delle attività minerarie su larga scala svolte dalla Koidu Ltd, impresa d’estrazione di diamanti. Quattro persone che protestavano perché fossero migliorate le condizioni di sicurezza delle loro comunità, sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni. I risarcimenti richiesti per queste famiglie sono bloccati da complesse procedure legali che richiederanno tempo.

Il caso limite della Repubblica Centrafricana segnerà il futuro del KP

È lungo l’elenco di paesi africani governati da leadership autoritarie e con forte tasso di corruzione che presentano condizioni politiche ed economiche che potenzialmente minacciano il KP. Con un passato coloniale in comune, sono oggi spesso gestiti da élite nazionali, in opposizione tra loro, con forti collegamenti con le forze armate. Spesso i capi sono ex funzionari dell’esercito che emergono da una trama frammentata di gruppi etnici e tribali. Ad esempio presentano caratteristiche di questo tipo Angola, Zimbabwe, Sierra Leone, Congo, paesi produttori di diamanti oggi tutto ammessi nello schema ma che, con un processo di Kimberley che riformasse i propri criteri, finirebbero col far registrare moltissime violazioni.

Ma tra tutti questi paesi un caso paradigmatico è costituito dalla Repubblica Centrafricana (CAR), l’unica nazione in cui una quota di diamanti, dopo un divieto di tre anni parzialmente eliminato nel 2016, ancora rientra attualmente nella definizione data dal KP di “diamanti da conflitto” e non può essere esportata (vedi “Box 7 – La Repubblica Centrafricana, diamanti da un paese fuori controllo”). La storia centroafricana non rappresenta un’eccezione al percorso post-coloniale standard che si fonda su strategie per lo sfruttamento specializzato delle materie prime messe in atto in paesi poveri, arretrati e poco attraenti per gli investimenti occidentali in campi diversi dall’estrazione mineraria.

C’è ora però chi questi investimenti nei settori dell’energia, dell’esercito e delle infrastrutture vorrebbe svilupparli. È la Federazione Russa, che ha preso inizialmente posizione in Africa Centrale nel momento in cui è stata avviata la missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite. In seguito s’è radicata schierando le forze mercenarie di Evgenij Prigozhin, discusso personaggio apertamente associato al Presidente Putin. La Russia sta perseguendo una politica di penetrazione militare ed economica in tutto il continente, in contrasto con la Cina e a detrimento della Francia e di altri paesi occidentali. Ma ciò che è in gioco nel paese sono le materie prime, principalmente l’uranio e i diamanti che la Russia intende controllare attraverso accordi stipulati con il governo e i ribelli. È una strategia basata sulla frammentazione territoriale, una politica spregiudicata di equilibrismo tra le entità legittime e quelle illegali con lo scopo di pacificare il paese quanto basti per mettere in sicurezza le compagnie minerarie, garantire l’esportazione e cedere parte dei benefici ai gruppi alleati.

Attualmente le esportazioni di diamanti sono consentite in CAR solo da zone limitate sotto il monitoraggio del KP e conformi alle indicazioni dello schema. La Russia, che nel 2020 detiene la presidenza del KP, ha iniziato a chiedere ufficialmente di revocare il divieto. Il 25 febbraio 2020, il viceministro delle finanze Alexei Moiseev ha dichiarato che le restrizioni stanno causando solo un aumento dei diamanti contrabbandati. Questa proposta è apertamente in conflitto con quanto affermato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel novembre 2019: “A causa della mancanza di controllo del governo e della diffusa attività ribelle nell’est, non sono possibili esportazioni conformi alla KP dall’est CAR”. In questo braccio di ferro sta il futuro di Kimberley.

Più che un incentivo alla legittimità del processo di produzione, più che una garanzia contro le terribili condizioni delle persone schiacciate dalla cabina di controllo dei territori dei diamanti, il processo di Kimberley per la Repubblica Centrafricana diventa il campo di battaglia tra interessi geopolitici in competizione. Certo, gli attori cambiano, la Francia non è più qui, la Cina è ancora lontana in altri paesi africani, ma il gioco rimane lo stesso, se non addirittura più esasperato.

Finora il KP è stato storicamente reso disponibile in paesi formalmente pacificati ed in presenza di un governo centrale riconosciuto in grado di attuare le sue regole. La proposta russa, una volta accettata, rischierebbe di tradursi in una ulteriore grave lesione della credibilità del KP, perché la concessione di certificati d’esportazione di diamanti da aree non pacificate legittimerebbe la disgregazione del paese. Si creerebbe una sorta di mosaico normalizzato fatto di alcune aree ricche di diamanti gestite dai ribelli e altri territori – tra cui anche aree in cui si estraggono diamanti – formalmente amministrate dal governo, entrambe comunque sotto il controllo e la direzione russa.

Box 7 – La Repubblica Centrafricana, diamanti da un paese fuori controllo

Nel marzo 2013 una coalizione di gruppi ribelli, nota come “Seleka”, si impadronì di Bangui, capitale del paese, espellendo violentemente l’allora presidente François Bozizé, sostituito con il suo leader, Michel Djotodia.

Negli ultimi anni si sono susseguite violenze crescenti causate da più parti: la fazione Seleka prevalentemente musulmana, gruppi di autodifesa cristiani e animisti noti localmente come “anti-balaka” o “anti-machete” e fazioni filogovernative. Gravi violazioni dei diritti umani sono ampiamente diffuse in tutto il paese. Né lo spiegamento di una missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite (MINUSCA) nel 2014 per proteggere i civili, né l’elezione di Faustin-Archange Touadéra a Presidente nel 2016 sono stati passi sufficienti per ripristinare la pace. Il paese sta vivendo dunque una devastante lotta tra forze governative e gruppi ribelli, che ha provocato oltre 1,1 milioni di sfollati (quasi il 20% della sua popolazione) con molte vittime.

La transizione economica dalla dominazione francese all’istituzione di un governo indipendente si è basata essenzialmente sul controllo dei depositi di diamanti, la risorsa economica più importante (39 milioni di carati di diamanti alluvionali sfruttabili secondo il Geological Survey degli Stati Uniti), nazionalizzata negli anni ‘60 e gestita sin dai primi governi nazionali in modo opaco ed in presenza di corruzione. Queste riserve, sfruttate quasi esclusivamente mediante estrazione artigianale informale e su piccola scala, sono concentrate in due principali sistemi fluviali (a sud-ovest, attorno ai fiumi Mambere e Lobaye e ad est, intorno al fiume Kotto).

Fig. 11 – Miniere autorizzate e non autorizzate. La Repubblica Centrafricana (nella mappa) mostra analogie con lo Zimbabwe. Come si possono individuare i diamanti legittimi? Ma qui c’è un altro problema, la separazione tra territori ricchi di diamanti controllati dal governo (nell’area sud-occidentale, evidenziati in viola) e quelli sotto il controllo dei ribelli (nell’area nord-orientale, evidenziati in giallo). In rosso i principali centri autorizzati alla distribuzione dei diamanti estratti (Nola, Berbérati, Carnot, Gadzi e Boda). Elaborazione grafica basata sui dati provenienti dall’USGS Open-File Report 2018-1088.
Il mercato dei diamanti pagherà un prezzo al virus. Se il KP finisce succederà che…

Alla situazione geopolitica che è stata richiamata sono subentrate prepotentemente le conseguenze del COVID-19. Dal 2020 i diamanti vivranno una fase di turbolenza, una caduta del potere d’acquisto ed un inevitabile ridimensionamento dell’appetibilità etica del prodotto. Il KP, come ogni iniziativa di responsabilità sociale, ha dimostrato di essere tanto più incisivo quanto più il mercato si trovava in condizioni di stabilità. Dopo il fallimento di Delhi un’Assemblea delle Nazioni Unite tenutasi il 3 marzo 2020 ha rilasciato una risoluzione che tenta di ricreare consenso sulle riforme. Si vedrà, ma al momento, di sicuro c’è solo il terremoto del COVID-19 che ha di colpo cancellato l’urgenza del tema del rigetto dei cambiamenti del KP. Che ne sarà allora dello scontro tra favorevoli e contrari all’inclusione nel mirino del KP di altri crimini che oltrepassano la portata attualmente perseguibile?

Questa contrapposizione che divide le parti in causa, ne condiziona e ne modifica i comportamenti. Infatti le grandi imprese estrattive multinazionali in grado di sfruttare miniere di profondità, molto strutturate a livello finanziario (circa il 75% del valore dei diamanti estratti è costituito da questi produttori integrati con la distribuzione) vantano un controllo totale del territorio delle operazioni (fattore decisivo per la valorizzazione dei depositi alluvionali). Inoltre, grazie a solidi accordi con i paesi in cui si sono insediate, hanno i mezzi per applicare pratiche virtuose mettendo in luce i propri comportamenti responsabili. Per grandi imprese come De Beers, Rio Tinto, BHP Billiton, Alrosa tutto ciò che aiuta a distinguersi dall’opacità rappresenta un vantaggio competitivo. Hanno poco da temere grazie ad una gestione centralizzata in grado di controllare i processi e garantire la tracciabilità della materia prima.

Fig. 12 – I paesi che, al Marzo 2020, aderiscono al Kimberley Process Scheme.

Più delicata è invece la posizione di Angola, Repubblica democratica del Congo (DRC), Repubblica Centrafricana (CAR), Costa d’Avorio, Guinea, Ghana, Liberia, Sierra Leone, Tanzania e Togo, paesi con depositi alluvionali dispersi sul territorio (il 14% della produzione mondiale, con 1,3 milioni di addetti) dove i diamanti vengono recuperati soprattutto da piccole o piccolissime imprese di minatori artigianali. Qui passano spesso di mano in mano in un sistema di intermediazione che ricorda la tipica frammentazione che era la regola prima dell’introduzione del KP e che complica il processo di autenticazione etica (vedi “Box 8 – Prima di Kimberley non importava da dove venissero i diamanti”). In tali contesti, seppure si siano introdotte iniziative per favorire pratiche responsabili come la Diamond Development Initiative (DDI), le piccole imprese non hanno in cima alle priorità un certificato KP basato su obblighi più stringenti. Infatti il rischio di blocco delle esportazioni è tanto maggiore quanto più il KP saprà dotarsi di un mandato più ampio contro gli abusi locali, le prevaricazioni contro le comunità o le pratiche illegali come il contrabbando e le sottodichiarazioni.

D’altro lato anche le ONG hanno dovuto modificare il proprio atteggiamento. L’accordo con l’industria nella fase iniziale del KP rischiava infatti di diventare un abbraccio mortale, una volta che la società civile sente che il mandato potrebbe essere stato tradito per scopi d’opportunismo. Oggi come oggi non possono che accentuare l’opposizione ad un atteggiamento volutamente miope verso le falle di un sistema che il fallimento del triennio riformista non è riuscito a sanare. La lezione è stata appresa, l’identità stessa delle ONG si fonda sul rigore della supervisione.

Box 8 – Prima di Kimberley non importava da dove venissero i diamanti

Per molti decenni, le imprese del ramo delle gemme e dei gioielli non sono riuscite a prendere nella dovuta considerazione le questioni relative alla legittimità dell’origine dei diamanti e della legalità del loro sistema d’acquisizione. Tradizionalmente il commercio dei diamanti non si basava infatti su una semplice catena integrata e tracciabile in grado di seguire gli scambi dalla miniera alla grande distribuzione. I consumatori sapevano poco della loro origine ed il controllo del commercio era nelle mani di middlemen che, in vari livelli di intermediazione, eseguivano innumerevoli transazioni, anche da paesi limitrofi. Questo sistema finiva col portare sul mercato lotti indifferenziati composti da diamanti da depositi alluvionali, relativamente facili da estrarre e magari provenienti da capi di fazioni militari attivi nei turbolenti paesi africani, mescolati a quelli prodotti da grandi compagnie minerarie regolarmente registrate e adempienti alle norme.

Fig. 13 – Nei paesi ricchi di diamanti alluvionali non è infrequenti trovare negozi come questo a Koidu, in Sierra Leone, testimone dei molti passaggi effettuati nel vecchio stile delle transazioni commerciali di diamanti grezzi. (Foto: talinibeanie/kiva.org)

L’industria del taglio è consapevole dell’importanza di un approvvigionamento responsabile, ma non ha mai avuto un grande interesse ad avere processi di approvvigionamento più selettivi e rigorosi, con conseguenti ulteriori restrizioni sull’accesso ai diamanti grezzi. Oggi l’industria deve prendere atto che sono disponibili nuovi processi di autenticazione etica, alternativi o complementari ai certificati di Kimberley, come le Blockchain, registri di tracciabilità digitale della catena di fornitura che possono convalidare tutti i passaggi fino ai gioielli finiti.

Giorno dopo giorno le Blockchain stanno diventando i più potenti concorrenti del certificato del KP poiché sono in grado di testimoniare l’integrità delle fasi estrattive e in più anche i passaggi successivi della supply chain. I diamanti tagliati immessi sul mercato poi potranno essere corredati da una quantità significativa di informazioni aggiuntive sulle tecniche del taglio. Per i grandi marchi internazionali di gioielleria la certificazione KP è ormai solo una parte di protocolli etici più ampi e sofisticati.

Se il KP decadesse ulteriormente, anche quella parte non sarebbe più necessaria perché i grandi player come De Beers e Alrosa stanno già attivando una blockchain comune, Tracr, che traccerà l’intera catena di approvvigionamento a partire dal reperimento del grezzo, con tanti saluti al vecchio caro certificato KP e con il sicuro gradimento da parte delle successive fasi di manifattura e distribuzione.

Il declino di KP, secondo alcuni osservatori, potrebbe anche indirizzare alcuni gruppi di consumatori verso i diamanti sintetici che non a caso vengono commercializzati come più etici o con credenziali etiche facilmente disponibili.

Il futuro della certificazione di legittimità dei diamanti può essere letto concentrandosi sulla transizione storica del KP. Nel 2003, quando fu lanciato il meccanismo, Kimberley più che un semplice sistema di certificazione era una sorta di simbolo di un impegno comune, un concetto di un nuovo ordine basato sul rispetto delle regole. Le regole erano il risultato di un accordo tra stati indipendenti che condividevano valori generali e un progetto di collaborazione. Nel 2020, la compliance è invece una necessità operativa che investe più le singole imprese che i trattati internazionali, è demandata più al mercato che agli agenti che il mercato pretenderebbe invece di regolare. Nel nuovo contesto, l’industria dei diamanti post COVID-19 potrebbe o ridurre il proprio impegno di CSR o orientarsi per le soluzioni più sbrigative.

È infatti la tracciabilità, intesa come origine geografica, ciò che già da tempo vuole oggi l’industria dei diamanti, il valore aggiunto, che influenzerà la domanda futura. Paesi più avanzati e senza conflitti come il Canada o il Botswana, ad esempio, godono di un possibile vantaggio perché l’origine geografica funziona già come un marchio a garanzia del responsible sourcing. Le grandi aziende produttrici di gemme e gioielli hanno imparato che possono iniziare a fare da sole, usando il KP senza dipendervi. L’adozione di una forte legislazione nazionale come il Dodd-Frank Act negli Stati Uniti porterà ad aumentare la pressione sulle singole aziende che sono tenute a rispondere individualmente senza che la questione sia più compito di organizzazioni internazionali (vedi “Box 9 – Il Dodd-Frank Act e gli altri regolamenti sui minerali da conflitto”).

E in questo caso, paradossalmente, un KP che scegliesse di aumentare i poteri sanzionatori ai suoi membri, nel momento in cui estendesse l’elenco degli obblighi optando per soluzioni come l’embargo, penalizzerebbe proprio quei paesi che dovrebbero invece essere spinti verso una maggiore trasparenza e correttezza. Ed allora ad un settimo della produzione di mondiali di diamanti potrebbe risultare più conveniente accedere a quella sezione di mercato impermeabile agli allarmi etici e sensibile a listini in caduta.

Box 9 – Il Dodd-Frank Act e gli altri regolamenti sui minerali da conflitto

Il processo di Kimberley ha avuto il merito di incoraggiare le istituzioni e le organizzazioni internazionali a compiere uno sforzo maggiore per contrastare l’uso di tutti gli altri minerali usati per finanziare gruppi armati. Ma non è l’unico intervento in materia. Già nel 1999 le Nazioni Unite avevano lanciato il Global Compact, un patto non vincolante per far sì che le imprese in tutto il mondo adottassero politiche sostenibili e socialmente responsabili, espresse in 10 principi relativi ai diritti umani, il contrasto alla corruzione, la protezione dell’ambiente. Anche le Linee Guida dell’OCSE forniscono principi e standard non vincolanti per la condotta aziendale responsabile in conformità con le leggi applicabili e con le regole riconosciute a livello internazionale.

Ma la legislazione che ha l’impatto più incisivo sulle materie prime da conflitto è il Dodd–Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, una legge federale degli Stati Uniti, approvata dall’amministrazione Obama nel 2010 per impedire che gruppi armati nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) e nelle regioni circostanti sfruttassero i vantaggi della commercializzazione di minerali come la cassiterite (per lo stagno), il wolframite (per il tungsteno), il coltan (per il tantalio) nonché l’oro, utilizzati nella produzione di numerosi dispositivi nel comparto dell’elettronica di consumo come laptop e telefoni cellulari. Il Dodd-Frank include nella sua definizione di minerali di conflitto “qualsiasi altro minerale o suo derivato che il Segretario di Stato determini sia usato per finanziare conflitti nella RDC o in un paese adiacente”. I diamanti possono dunque essere inclusi nell’elenco. Ai sensi del Dodd-Frank Act, le società pubbliche negli Stati Uniti devono rivelare se facciano uso di tali materiali nei loro prodotti e hanno il nuovo dovere di determinare se sono acquistati in modo etico.

Fig. 14 – (Foto: Global Witness)
Per approfondimenti:

Articolo di Paolo Minieri, pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia n. 9, Primavera 2020

Fig. 15 – La miniera di diamanti “Big Hole” a Kimberley (Sudafrica), operativa dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni ‘70 del Novecento.

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