sabato, Aprile 27, 2024
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L’estrazione di diamanti nel nord dell’Angola provoca un disastro ambientale nel sud del Congo (RDC)

A luglio del 2021, un affluente del fiume Congo cambia colore nella regione di Kwilu. Muoiono in dodici. Migliaia di persone stanno molto male per disturbi gastrointestinali e dissenteria. Improvvisa moria di pesci. Ippopotami stecchiti galleggiano in superficie. Il consumo di acqua è bandito dalle autorità. La compagnia diamantifera angolana di Catoca, qualche centinaia di km più a sud, sotto accusa, nega, ma poi ammette che dall’impianto di separazione alla rete fluviale c’è stata una perdita, ma solo di rocce argillose e non di metalli pesanti. Ma il disastro ha certamente origine nel Nord Angola dove gli unici impianti industriali sono solo quelli dell’estrazione di diamanti. Mentre il Congo (RDC) vara un megaprogetto idroelettrico per potenziare l’estrazione di minerali la domanda è: l’attività mineraria estrattiva di gemme può essere una minaccia per l’equilibrio ambientale? Certo, lo dimostra il caso che IGR ha ricostruito.

Figura 1 – La regione interessata dal fronte d’inquinamento è situata al confine tra due paesi. Le regioni Angolane di Lunda Norte e Lunda Sul hanno una spiccata vocazione mineraria nell’estrazione di diamanti, mentre il Kasai congolese vive fondamentalmente di agricoltura di sussistenza e di pesca fluviale. L’incidente a valle (in Angola) ha causato danni a monte (in Congo). (Foto mappa: Sentinel Vision/VisioTerra/ESA; foto miniera Catoca: Gsmart-ao/Wikimedia Commons, License CC BY-SA 4.0; rielaborazione grafica: IGR)

La provincia settentrionale angolana di Lunda (Norte e Sul) e quella meridionale congolese di Kasai sono territori confinanti che hanno molto in comune dal punto di vista della geografia fisica: savane umide e secche ma soprattutto un complesso bacino idrografico di affluenti del fiume Congo. Lo Tshikapa, Chicapa in portoghese, è un affluente del Kasai che nasce nella regione di Lunda Sul, attraversa l’Angola verso Nord, disegna i confini con il Congo (RDC) per una quarantina di km per poi gettarsi nel Kasai in territorio congolese.

Nel suo tragitto angolano il fiume Tshikapa attraversa la città di Saurimo, che per il nuovo corso del Presidente Lourenço è destinata ad essere un hub per l’industria dei diamanti e dove opera dal primo semestre del 2021 un impianto di taglio. Con un suo affluente costeggia l’insediamento minerario di Catoca, il quinto deposito mondiale di diamanti per valore della produzione. Si tratta di un impianto su cui il governo angolano appunta molte aspettative. In piena espansione, è gestito da una società russo-angolana (il colosso ALROSA detiene il 41% delle quote).

La disponibilità d’acqua è un fattore importante per la gestione di qualunque attività estrattiva. Infatti proseguendo verso nord lungo il ricco bacino idrografico incontra siti minori che sfruttano depositi di diamanti prevalentemente secondari. Anche qui occorre separare con acqua le ghiaie diamantifere.

Lo Tshikapa scorre tra due territori che sono già due nazioni diverse e che hanno vocazioni diverse. La disponibilità di risorse minerarie preziose nel Lunda angolano confligge con l’assetto che caratterizza l’economia della regione frontaliera congolese di Kasai, la cui sussistenza è totalmente basata sulla pesca e sull’attività agricola, rese possibili dall’estensione del bacino fluviale e dal suo benessere ambientale.

Quello che succede a monte inevitabilmente condiziona l’assetto dell’economia e dell’equilibrio ecologico a valle. All’improvviso il 12 luglio il colore dello Tshikapa si trasforma in un inquietante rossiccio. Se è vero che le immagini satellitari rilevate ad agosto 2021 mostrano acque evidentemente inquinate, di tale colore, a partire da sud in prossimità dello stabilimento di lavorazione del minerale della miniera di Catoca, è altrettanto vero che le stesse immagini l’anno precedente mostrano lo stesso fenomeno: gli scarichi della lavorazione mineraria impattano in modo evidente anche se non necessariamente sono tossiche. Piuttosto il fronte inquinante appare visibile nella dilatazione delle aree di drenaggio delle lavorazioni di separazione di Catoca nelle settimane del disastro1.

Passano molti giorni prima che l’allarme scatti. Nel frattempo le sostanze immesse nel sistema fluviale questa volta sono tossiche e percorrono lo Tshikapa, si addensano 330 km a Nord della miniera di Catoca nella città congolesi di Tshikapa e Ilebo e irrompono nel bacino del Kasai avvelenando le forme di vita ospitate da questi fiumi, e non risparmiando gli abitanti rivieraschi. Si contano 12 morti .

Figura 2 – Gli effetti del disastro ambientale nei fiumi Tshikapa e Kasai registrati nella Repubblica Democratica del Congo. (Foto: CRREBaC, Congo Basin Water Resources Research Center)

Gli annunci arrivano quando il disastro si è compiuto. Sia il gigante minerario russo Alrosa che il suo socio angolano Endiama informano che non era loro competenza rendere pubblica la perdita dell’impianto e riconoscono il disastro solo il 23 agosto, dopo che alcune immagini satellitari, rilanciate dall’Agenzia Reuters, fugano qualunque dubbio: le cause dell’inquinamento sono in Angola.

Il ministro congolese dell’ambiente Ève Bazaiba non ci aveva invece girato intorno. Già a fine luglio aveva accusato in modo esplicito l’attività d’estrazione di Catoca (Figura 3) chiedendo immediatamente delle compensazioni per i danni causati:

Figura 3 – Questa immagine è stata fornita dall’ESA, un’organizzazione intergovernativa che collabora con la UE. Ci viene mostrata l’area di confluenza delle acque dello Tshikapa che appaiono rossastre a causa di un evento a valle. Lo Tshikapa si immette qui in un sistema idrografico più vasto che in parte si volge di nuovo a Sud attraverso il Kasai. (Foto: Sentinel Vision/VisioTerra/ESA)

«Stiamo aspettando le riparazioni, hanno ammesso che c’era inquinamento. Stiamo prendendo dei campioni per stabilire delle prove». I risultati rilasciati dall’Agenzia congolese CRREBaC, specializzata nello studio e nella gestione delle risorse fluviali, non lasciano dubbi: «Possiamo dire con certezza che questo inquinamento proviene da metalli pesanti che sono entrati nel fiume e la nostra preoccupazione è che entri nella catena alimentare… Una catastrofe ambientale senza precedenti».

L’incidente è avvenuto nella miniera diamantifera di Catoca?

L’area di sfruttamento a cielo aperto dei diamanti kimberlitici di Catoca occupa 64 ettari ed impiegava circa 2000 persone nel 2020. È considerato un impianto moderno con una profondità d’estrazione di 200 metri, che dovrebbe arrivare a 600 metri nel 2034. Il materiale viene trasportato con l’uso di bulldozer e autocarri a cassone ribaltabile verso due linee di lavorazione, dove il minerale viene frantumato e poi inviato al mulino di macinazione autogeno tramite un nastro trasportatore. Il minerale frantumato passa attraverso cinque diversi stadi di vagliatura delle particelle: uno di questi, la separazione a mezzo denso (DMS), prevede l’impiego di ferro-silicio (una miscela composta principalmente da ferro, silicio, titanio e alluminio) che, grazie ad un impasto con acqua, permette di separare la roccia di kimberlite contenente diamanti (più densa) dalla roccia sterile di kimberlite (meno densa). Variazioni nel processo di produzione di un reagente possono comportare un cambiamento nelle impurità pericolose nella sostanza chimica. I diamanti vengono separati dal concentrato attraverso la flottazione a spuma, separati e puliti, e pesati.

Alla fine di ogni operazione il Fe-Si viene recuperato dal flusso di processo usando un separatore magnetico per poi venire riciclato. Il problema di questa lavorazione consiste nel fatto che possono verificarsi perdite di Fe-Si dovute all’attrito, ai prodotti di separazione, ai cambiamenti di densità e alle modifiche delle proprietà magnetiche.

Cosa è successo nel luglio 2021 negli impianti di lavorazione della miniera angolana di diamanti? Le perdite di metalli sono da attribuire ad altri siti? Una ricostruzione precisa sarebbe possibile solo se si fosse praticata un’analisi chimica delle acque tempestivamente e con campionature acquisite in più località. Ora sono possibili solo ipotesi, dato che i vertici della Catoca Mine hanno autorizzato solo un’indagine interna e continuano a negare la fuoriuscita di metalli pesanti anche se ammettono la rottura della diga di protezione nel bacino di ritenzione delle acque di lavaggio della miniera. Le ricostruzioni satellitari, d’altro canto, mostrano che molti siti minerari angolani riversano, non da ieri, sostanze inquinanti nel sistema idrografico che risale verso il Congo.  Solo che questa volta gli effetti sono stati l’area precisa all’origine della contaminazione anche se si è certi che si tratta di metalli pesanti usati per la separazione industriale dei diamanti.

Figura 4a – Il 25 luglio un gradiente di colore fortemente accentuato denota l’inquinamento che avanzava allora a monte delle miniere diamantifere. Le due immagini satellitari (a-b) rilevate dal sito Sentinel, a confronto, mostrano come l’origine sia individuabile precisamente negli insediamenti minerari e denotano lo stato delle cose prima (4a) e dopo l’evento (4b). In figura la situazione al 20 luglio 2021, prima dell’evento. (Foto: Sentinel Vision/VisioTerra/ESA)
Figura 4b – In figura la situazione al 25 luglio 2021, dopo l’evento. (Foto: Sentinel Vision/VisioTerra/ESA) (Foto: Sentinel Vision/VisioTerra/ESA)

Un gigante fragile. Il sistema idrografico del Congo

La Repubblica Democratica del Congo, con una popolazione di 90 milioni di abitanti è per superficie di gran lunga il più esteso paese dell’Africa centrale. La sua storia degli ultimi decenni riproduce in modo quasi paradigmatico il modello classico delle economie africane nella fase della decolonizzazione. Gli ingredienti ci sono tutti: stretto asservimento coloniale (da parte del Belgio) e indipendenza nel 1960, conseguente debolezza istituzionale, inconsistenza di un una classe dirigente nazionale, debolezza finanziaria e corruzione diffusa, dipendenza totale dall’export minerario. Secondo il copione classico dell’affrancamento post-coloniale africano, il paese è finito nel 1965 nelle mani di un esponente militare, Mobutu, che ha nazionalizzato l’economia, governandola come un feudo personale fino al 1997 con risultati di stagnazione piuttosto che di crescita.

La Repubblica Democratica del Congo precipita subito dopo in una fase di conflitto armato che ha coinvolto altri cinque stati africani e la propria regione del Kivu in una guerra civile che ancora rende difficile la situazione nella parte orientale del paese. Lo scontro non è altro che una vera e propria contesa internazionale, sotto osservazione dell’ONU, per il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e coltan (indispensabile all’industria dell’hardware) di quel territorio.

Queste materie prime, assieme a petrolio ed idrocarburi, costituiscono il fulcro dell’assetto economico del Congo e la chiave dello sviluppo che il paese sta progettando. Ma il comparto minerario deve convivere con quello agricolo che è basato fondamentalmente sulla sussistenza e che insieme alla pesca e all’allevamento è determinante per il sostegno dei tre quarti della popolazione del paese. Tutte le risorse del Congo, agricole, minerarie ed energetiche, ruotano attorno allo sfruttamento della sua ricca rete fluviale.

Figura 5 – Bacino idrografico del fiume Kasai che, insieme al suo affluente Tshikapa (Chicapa), attraversa il confine tra Angola e Congo RDC (segnato in bianco). Il Kasai si immette poi nel fiume Congo. (Foto: Hans Braxmeier & Peter in s/Wikimedia Commons, License CC BY-SA 2.0)

Con più di 4.700 chilometri, il Congo è il secondo fiume per lunghezza dell’Africa dopo il Nilo e il secondo nel mondo per portata dopo il Rio delle Amazzoni (vengono scaricati 41.000 metri cubi al secondo). Nasce nei rilievi equatoriali, scorre attraverso la più grande foresta pluviale dell’Africa e sfocia a ovest nell’Atlantico. Con il suo bacino di 3,7 milioni di chilometri quadrati, le sue innumerevoli diramazioni di affluenti ricchi d’acqua dolce, i suoi canali utili al trasporto regionale in Africa centrale, il fiume Congo crea una rete estremamente estesa di 25.000 chilometri e costituisce l’arteria cruciale e il motore delle aspettative di sviluppo per molti paesi. È il cuore di un gigantesco ecosistema e la più grande riserva globale di energia idroelettrica non sfruttata, il 13% del potenziale idroelettrico mondiale, equivalente a 100.000 MW, cioè abbastanza per coprire la richiesta dell’intero continente africano.

Il megaprogetto di centrali idroelettriche INGA, propulsore delle attività estrattive

Ed è proprio questo potenziale energetico che la Repubblica Democratica del Congo ha l’intenzione di sfruttare per dare impulso ed incrementare l’estrazione mineraria, attività che già di per sé comporta uno sfruttamento idrico intensivo e che in fondo è predominante anche in Angola. Il risarcimento che ora il Congo chiede all’Angola per lo sversamento causato dall’incidente di luglio riguarda un evento inquinante avvenuto in un altro paese. Ma è altresì vero che tali incidenti potranno avvenire comunemente anche all’interno dei propri confini, qualora si concretizzasse il desiderato boom degli impianti estrattivi in un’Africa Centrale fortemente specializzata nella sola industria mineraria.

Quando infatti la richiesta di mercato di materie prime si fa pressante come oggi e si programma di costruire nuovi impianti estrattivi, sostenuti dalle generose iniezioni energetiche derivanti dalle nuove dighe per la produzione idroelettrica, i rischi ambientali si moltiplicheranno. Oltre al deterioramento delle acque è inevitabile che il disboscamento estensivo interferisca con il funzionamento dell’intero sistema fluviale, accelerando il calo delle precipitazioni. Un poderoso sviluppo nel comparto idroelettrico non è un’ambizione recente. Risale agli anni trenta del secolo scorso. INGA I, il primo impianto, fu realizzato nel 1972 (351 MW) e riuscì a garantire forniture elettriche sufficienti a sviluppare la capitale Kinshasa. Il secondo impianto, INGA 2 (1.424 MW), doveva innescare lo sviluppo minerario del Congo orientale ma i risultati sono stati disastrosi, poiché la rete elettrica distributiva ha visto la luce solo cinque anni dopo la messa in moto dell’impianto con conseguente deterioramento dei materiali e funzionamento ridotto. Ciò che fu ancora più grave fu il conseguente indebitamento del paese che non poté ripagare il costoso ricorso al finanziamento internazionale.

Figura 6 – Il faraonico progetto INGA che dovrebbe trasformare il bacino del Congo nel più grande produttore di energia elettrica del continente africano. Una considerevole parte dell’energia prodotta è destinata allo sviluppo dello sfruttamento minerario in Africa centrale. (Foto: Sémhur/Wikimedia Commons, License CC-BY-SA-3.0)

Tra lo scetticismo, l’appoggio condizionato, i ritrattamenti ed timori delle grandi banche mondiali il progetto INGA procede grazie ad un accordo con l’australiana Fortescue Metals Grouped e con gruppi cinesi e spagnoli. A regime si dovrebbe raggiungere una produzione di 40.000 MW con un costo tra i 50 ed i 60 miliardi di dollari.

Africa centrale. Uno sviluppo con molti diamanti e miniere, poca diversificazione e grandi rischi ecologici

La notizia dell’incidente della fuga tossica nordangolana è stata riportata dalla stampa internazionale ma l’onda dell’interesse tende a scemare. Se la si confina, come caso isolato, ad una semplice questione frontaliera, si perdono alcuni spunti che sono determinanti.

Non si tratta di un conflitto di interessi tra paesi che concepiscono i termini del proprio sviluppo in maniera differente. C’è infatti un tratto comune che riguarda paesi come la Repubblica Democratica del Congo, l’Angola, il Mozambico, la Tanzania. Le economie di questi paesi non riescono ad articolare processi produttivi alternativi all’industria estrattiva nella quale i diamanti recitano un ruolo importante assieme a tante altre gemme che in quelle regioni hanno i principali siti di reperimento a livello mondiale (rubini di Cabo Delgado in Mozambico, tanzanite di Arusha in Tanzania, gli smeraldi zambiani dell’area di Kafubu).

Il motore energetico che confermerà questa specializzazione mineraria si troverà in Congo e sarà un enorme progetto idroelettrico che pone seri rischi ambientali e non è certo basato su quelle fonti alternative che tingono di verde lo scenario delle fonti rinnovabili delle economie occidentali del futuro.

Su scala regionale, possono verificarsi conflitti sull’uso delle risorse idriche tra le esigenze agricole e alimentari, l’uso industriale-minerario e la produzione di energia. Il caso delle perdite tossiche delle miniere angolane non è che un primo esempio. Un tale episodio che coinvolge diversi paesi comporta questioni di diritto internazionale e controversie legali tra questi paesi.

La capacità di evitare danni ambientali dipende dal livello di tecnologia e di attrezzature possedute dalle compagnie minerarie, spesso controllate dall’estero. Paradossalmente, questo porterà i paesi dell’Africa centrale a un’ulteriore dipendenza legata alla sostenibilità ambientale. Questo si aggiungerà alla cronica e lunga dipendenza finanziaria e tecnologica.

Articolo di Paolo Minieri, pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia n. 14, Primavera 2022

Note:

1 Grazie alle immagini satellitari oggi disponibili le modificazioni dell’assetto del territorio sono visibili. Nel caso specifico il blog di Dave Petley, Pro-Vice-Chancellor (Research and Innovation) presso l’Università di Sheffield nel Regno Unito, fornisce un preciso commento fotografico sull’allargamento una grande nuvola di materiale inquinante apparso sul lato a valle della diga di scarico dell’impianto di Catoca. La macchia nei giorni entra nel corso d’acqua dell’affluente dello Tshikapa.

Figura 7 – Tramonto da Kalonda. Kasai vicino a Tshikapa (Foto:Sagar Bhatt/Wikimedia Commons, License CC BY-SA 3.0)

Referenze di lettura:

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