sabato, Aprile 27, 2024
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Il nome dei diamanti. Una battaglia che si sposta dal microscopio al dizionario

La Federal Trade Commission, la storica agenzia governativa statunitense che regola tra l’altro il mercato della gioielleria per quanto riguarda la corretta terminologia ed il contrasto alle frodi, nel rivedere le proprie linee guida dopo circa un ventennio, nel 2016 considerava possibile denominare i diamanti “coltivati”. L’attributo sarebbe però dovuto essere accompagnato da “creato in laboratorio, accresciuto in laboratorio, creato da… [nome del produttore], sintetico o da un’altra parola o frase dello stesso significato. Come è noto agli addetti, il metodo di lavoro dell’FTC consiste nel recepite i suggerimenti delle parti in causa. E a quanto pare c’è un bel ventaglio di posizioni e di proposte per quello che riguarda la terminologia. Ad esempio l’Associazione Jewelers of America dissente sul punto: la coltivazione presupporrebbe sempre un origine organica. Ed in sintonia si registrano le posizioni dell’ISO del 2015. Sulla materia torna recentemente un comunicato del CIBJO redatto da Udi Sheintal, Presidente della Commissione Diamanti. In linea con la clausola 4.3.1.1 del Blue Book i diamanti sintetici non possono che essere designati altrimenti che “creati in laboratorio” o “accresciuti in laboratorio”. Secondo il CIBJO, che ispira la maggior parte degli ordinamenti, di conseguenza non sono ammessi attributi quali la semplice e sola menzione del produttore né l’attributo “coltivato”. Inoltre non sono ammesse abbreviazioni di questi due termini. La linea perseguita da Sheintal configura come diamanti solo quelli naturali per i quali non viene richiesta alcuna qualifica aggiuntiva. Se leggiamo “diamanti” dovremmo dunque sempre aspettarci gemme naturali. Ma non c’è accordo unanime poiché secondo lo stesso Sheintal: “Qualcuno dentro il CIBJO è dell’opinione che le vendite di materiali naturali non saliranno se li denominiamo esclusivamente ‘diamanti’. A dire il vero, dicono, rinunciando volontariamente all’uso della parola ‘naturale’ stiamo di fatto autorizzando i venditori di sintetici ad associarla ad elementi negativi, come ad esempio il presunto impatto sull’ambiente. E ciò serve i loro scopi”.

Insomma la partita che si gioca per la trasparenza e per la difesa dell’integrità del commercio sembra passare dal terreno della pura identificazione a quella della corretta terminologia. Ma mentre i dati fisici sono incontrovertibili, le sfumature del dizionario possono aprire spazi di ambiguità ed aggiungere combustibile per controversie. Ad esempio nel settembre scorso UBM, organizzatore della Hong Kong Jewellery & Gem Fair, ha chiesto agli espositori interessati di esporre un cartello (vedi foto) per precisare che i loro fossero diamanti “naturali”. L’intento, lodevole in considerazione della gran confusione che esiste tra i paesi asiatici emergenti nel consumo di diamanti, ha però suscitato la reazione di molte Associazioni di settore (nonché del CIBJO), secondo le quali l’attributo “naturali” indirettamente metterebbe i diamanti sintetici in una posizione di pari dignità. Diamanti sono gli uni e diamanti sono gli altri (i sintetici). La rinuncia agli aggettivi non sembra però condivisa dall’industria, nelle promozioni gli attributi abbondano e spesso sono il focus del messaggio. “Real is rare”, la campagna del nuovo marketing condiviso dei grandi produttori pone tutta l’enfasi proprio sulle qualifiche “real” e “rare” mentre i diamanti, ad evitare l’ambiguità con i sintetici, sono sottintesi. E sul versante dei sintetici? Diamond Foundry, l’azienda su cui ha puntato Leonardo Di Caprio, produce diamanti sintetici e li chiama “real diamonds”.

Gem News a cura della redazione di Trasparenze News, pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia n. 3, Gennaio 2018.

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