venerdì, Aprile 19, 2024
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Gemme, miniere e conservazione in Mozambico e Madagascar

Introduzione. Bellezze primordiali nello Tsavo

Tsavo, Kenya, 6 Luglio 2005. Era il mio primissimo viaggio in Africa e avevamo appena trascorso il primo giorno nella foresta. Fu una gran bella giornata visto che potemmo visitare la miniera John Saul, che all’epoca era la più importante attività mineraria dell’Africa orientale. Non appena lasciammo la miniera, situata all’interno del Parco Nazionale dello Tsavo passammo con i nostri veicoli nelle vicinanze di una buca riempita d’acqua lasciata dai minatori. Ma non eravamo soli: spuntando fuori dai cespugli apparve una folta mandria di elefanti. Ricoperti dalla polvere rossa dello Tsavo, circa un centinaio di questi giganti stavano venendo ad abbeverarsi vicino alla miniera di rubini (Figura 1). Fu un momento fantastico e di qualcosa mi resi chiaramente conto: di quanto cioè qui, in Africa, l’attività mineraria e la natura fossero chiaramente in armonia tra loro. Ero estasiato.

Fig. 1 – Una mandria di elefanti spunta fuori dai cespugli a Tsavo, Kenya. (© Vincent Pardieu / AIGS)

La prima volta che ho sentito parlare dello Tsavo stavo guardando il famoso film di Hollywood «Spiriti nelle tenebre» (1996). Parla della famosa storia di due leoni mangia-uomini che seminano il terrore e bloccano un progetto ferroviario (Patterson, 1907). Da quel momento Tsavo è stato per me sinonimo della crudezza delle lande selvagge. Per questo motivo andare proprio lì a visitare per la prima volta una miniera era qualcosa che mi eccitava molto. Vedere da vicino una mandria di elefanti a meno di cento metri da quella miniera di rubini all’interno del Parco Nazionale dello Tsavo era qualcosa che mi sarei aspettato di vedere solo nei miei sogni… Io, giovane gemmologo innamorato della Natura, ero pure del tutto innamorato delle missioni sul campo in Africa. Ma quel giorno fu solo un preludio ad una splendida settimana. Pochi giorni dopo, infatti, andammo a trovare Campbell Bridges, un uomo che si dichiarava ambientalista prima che minatore. Fu lui ad assegnare alla varietà verde di granato grossularia il nome «Tsavorite» (Figura 2), da quello del parco Nazionale dello Tsavo (Pardieu, 2008).

Fig. 2 – Granato grossularia verde, conosciuto anche come “tsavorite”. Si ringraziano Campbell Bridges e Tiffany & Co. (© Vincent Pardieu)

Dopo numerosi viaggi nello Tsavo a partire dal 2005, adesso ogni volta che mi ritrovo davanti un rubino cabochon proveniente dalla miniera di rubini John Saul, anche se non è la pietra più bella del mondo, provo una sensazione speciale, una sensazione che si origina dai meravigliosi ricordi che ho dell’Africa e dello Tsavo! Eppure lo Tsavo non è l’unica regione in Kenya o nell’Africa orientale dove io abbia visitato giacimenti minerari in presenza di bellezze naturali. Nei depositi di rubini nei pressi di Baringo mi meravigliai nel vedere nelle vicinanze milioni di fenicotteri rosa, i cui colori si abbinavano a quelli dei rubini estratti lì vicino. Anche nella limitrofa Tanzania settentrionale le aree di produzione di gemme si trovano vicine ai Parchi Nazionali: smeraldi e alessandriti vengono estratti nel sud del Parco Nazionale della Manyara, bei granati rodolite vicino Tarangire, a Longido i rubini, e a Loliondo, vicino a Serengeti, si trovano i granati spessartina. La Valle dell’Umba invece, nell’area del Parco nazionale di Mkomazi, è ricca di zaffiri, zirconi e tormaline, mentre Mahenge, nella Tanzania centrale è famosa per i suoi rubini, spinelli e granati. Il sito sorge vicino alla Riserva di Selous e per arrivarvici potevo godermi ogni volta un giro in macchina attraverso il Parco Nazionale di Mikumi e vedere bufali, giraffe, elefanti e antilopi. Nel 2016 ho avuto persino la possibilità di ammirare un leopardo che in pieno giorno ha attraversato la strada proprio davanti alla nostra macchina! Infine, nel sud del continente, le zone di produzione di zaffiri a Songea e Tunduru sorgono entrambe dalla stessa parte del corridoio di fauna selvatica che collega Selous alla Riserva Nazionale di Niassa in Mozambico. Ogni volta che viaggiavo attraversando l’Africa dell’est per visitare attività di estrazione mineraria, mi sono reso conto di come fossero possibili alcune sinergie tra il commercio delle gemme e l’ambientalismo. E dunque quale migliore promozione per le gemme, se non accostarle a quelle provenienti dall’universo naturale dei Parchi Nazionali Africani?

Fig. 3 – I rubini “Rhino” e “Dragon Eye” venduti da Gemfields. Questi rubini hanno contribuito a finanziare la conservazione in Mozambico. (© Vincent Pardieu)
Fig. 4 – I rubini “Rhino” e “Dragon Eye” venduti da Gemfields. Questi rubini hanno contribuito a finanziare la conservazione in Mozambico. (© Vincent Pardieu)

Mozambico. Quando la dura realtà fa vacillare una visione un po’ ingenua

Nel Settembre del 2009, la mia ingenua ed ottimistica visione di queste cose subì una brusca verifica dalla realtà dei fatti. Ero in viaggio in Mozambico nel tentativo di vedere i due nuovi depositi di rubini da poco scoperti nel nord del continente a Niassa, vicino a Montepuez. Eravamo diretti verso uno di questi nella foresta di Niassa quando in un niente venimmo colti di sorpresa da un gruppo di uomini armati che ci puntarono i loro AK47 in faccia. Ricordo che solamente una parola mi passava per la testa «M***a». Pensai che fosse finita. Fortunatamente per noi, nonostante il loro aspetto non proprio convenzionale (uno di loro indossava una maglietta di Osama Bin Laden che celebrava l’11 Settembre), queste persone costituivano una squadra di Rangers di Niassa, poliziotti del Mozambico e funzionari dell’immigrazione. Si trattava chiaramente di un fraintendimento: noi viaggiavamo con le autorizzazioni forniteci dal direttore regionale delle attività minerarie e dal capo del distretto. In più avevamo con noi un tecnico del Ministero delle Miniere ed un poliziotto in uniforme. Dal canto loro però questi uomini avevano ricevuto da altre autorità il preciso ordine di arrestare chiunque avesse tentato di recarsi ai siti minerari e non erano stati messi al corrente della nostra visita. Così pensarono che noi potessimo essere finanziatori di rubini illegali. Prima che la controversia fosse chiarita, passammo tre giorni di detenzione nella foresta (Figura 5): non è esattamente quello che definirei la miglior esperienza vissuta in Africa, soprattutto dal momento che queste persone erano molto dure nei nostri confronti. Nel mio primo viaggio in Mozambico, dunque, non mi fu possibile vedere ciò che desideravo ma, tutto considerato, l’esperienza non fu affatto una totale perdita di tempo. Infatti grazie a questa disavventura entrai in contatto con l’amministrazione della Riserva Nazionale di Niassa che mi invitò ad andarli a trovare a Maputo per discutere insieme dei problemi che stavano affrontando a causa dell’invasione di minatori nella Riserva. Così tornai in Mozambico e passammo tre giorni assieme e alla fine mi diedero il permesso di visitare il nuovo giacimento di rubini. Pochi giorni più tardi tornai a Niassa fra lo stupore di alcuni di coloro che mi avevano poche settimane prima messo in detenzione e che ora, ironia della sorte, erano stati incaricati di proteggermi… La visita andò bene e la Riserva di Niassa mi invitò a prendere parte al loro Congresso annuale a Pemba, nel dicembre del 2009, per fare un intervento sul tema del commercio dei rubini dicendomi che avrei avuto l’opportunità di incontrare e confrontarmi con persone provenienti da Montepuez, zona che non ero ancora riuscito a visitare. Ancora una volta, dunque, tornai in Mozambico, ebbi la possibilità di stare a contatto con molti ambientalisti e operatori turistici ed alla fine fui presentato a delle persone del Mwiriti Ida che avevano la licenza mineraria vicino a Montepuez. Dopo alcune chiacchierate essi acconsentirono a lasciarci visitare il loro nuovo deposito: avemmo il piacere di essere i primi visitatori stranieri a vederlo. Tornato in Thailandia, potei cominciare a lavorare su un esteso studio su quei nuovi materiali che presto sarebbero diventati le maggiori risorse mondiali di rubini (Pardieu & al., 2009). Questo reportage interessò molto Gemfields che si avvicinò al Mwiriti e alla fine nel 2011 entrò in una partnership con loro per lavorare nell’area. Quell’avventura per me resta un classico esempio di come, quando si resta positivi e non ci si arrende, sia possibile che da un inizio disastroso si passi ad un finale di successo. Incontrare gli ambientalisti e lavorarci assieme nel Mozambico settentrionale mi ha consentito di vedere questi nuovi giacimenti di rubini e mi ha fatto capire che Niassa, in Africa Orientale, è davvero un posto straordinario, come Tsavo. In questo modo ho imparato tanto sull’ambientalismo e su come questo e la gemmologia possano trarre vicendevoli vantaggi. Niassa è una delle aree africane protette più grandi, e di conseguenza è molto difficile accedervi. Ma proprio questo suo isolamento è l’arma con cui se ne può proteggere l’autenticità. Allo stesso tempo però Niassa fatica ad attrarre i turisti ed è difficile trovare il modo di finanziare la difesa dell’ambiente: viaggiare in questi luoghi richiede tempo ed è costoso. Inoltre c’è il fatto che non è una meta ideale per i turisti col pallino della fotografia: qui la foresta è fitta e non è facile vedere animali in pianure aperte come Massai Mara, Serengeti o Ngorongoro. Inoltre la zona è afflitta da mosche tse tse e zanzare.

Fig. 5 – La squadra che accompagnava Pardieu durante la detenzione nella foresta. (© Vincent Pardieu)

Per un paese come il Mozambico, la cui economia è stata tormentata da guerre durante la maggior parte della seconda metà del XX secolo, la priorità del governo sono le persone, non la difesa dell’ambiente. Dunque, con poco turismo e uno scarso sostegno da parte del governo, risulta difficilissimo trovare le risorse necessarie per proteggere Niassa dalle tante minacce incombenti. La Riserva ha allora deciso di fare una scelta assai controversa per molti ambientalisti, far cioè diventare Niassa un laboratorio per «i trofei di caccia compatibili con la difesa ambientale». Il principio alla base è il seguente: dal momento che gli animali si riproducono e muoiono, la fauna selvatica è da considerarsi una risorsa rinnovabile. Se un’area è ben amministrata, il numero degli animali può crescere grazie ai profitti ricavati dalla attività venatorie sfruttando il fatto che i cacciatori di trofei mettono nel mirino principalmente vecchi esemplari maschi che hanno avuto abbastanza tempo per riprodursi e che un giorno dovranno comunque morire… Al fine di studiare e seguire il fenomeno, la Riserva di Niassa ha assunto alcuni scienziati col compito di monitorare le specie animali rilevando i pericoli che le minacciano (compreso l’impatto con la caccia) e per trovare la soluzione più pratica per Niassa. I cacciatori si trovano d’accordo sul fatto che più leoni ci sono, più se ne possono vendere ai propri clienti (Figura 6).

Fig. 6 – Una leonessa di nome Fatima uccisa dai bracconieri un anno dopo questa foto. (© Vincent Pardieu / GIA)

Ho incontrato Colleen e Keith Begg per la prima volta al Congresso della Riserva di Niassa nel 2009, dove Colleen fece un intervento sulle condizioni della popolazione di leoni. Riferiva – e ne era felice – che, siccome i cacciatori non stavano più colpendo leoni di età inferiore ai 6 anni negli ultimi tempi, reputava che la pratica venatoria finalizzata al conseguimento di trofei, come era allora praticata, fosse divenuta una minaccia trascurabile alla sopravvivenza dei leoni a Niassa. D’altro canto, però, ciò che rappresentava veramente un pericolo, era la distruzione degli habitat naturali causata dal disboscamento e dalle trappole ad esca di carne che si trovano nella foresta. Inoltre, per il mio grande stupore, Colleen mise l’attività mineraria tra le maggiori minacce per la popolazione dei leoni, definendola anche peggiore dei trofei di caccia… Ero a dir poco scioccato. Come poteva un’ambientalista, che ovviamente non era a favore della caccia, vedere l’industria dei trofei di caccia come un alleato per la salvaguardia dell’ambiente e, allo stesso tempo, l’attività mineraria come una minaccia?

Ebbene, i fatti furono chiari quando ci rendemmo conto di cosa fosse successo a Niassa dopo la scoperta dei rubini nel 2008 a circa 30 km dal villaggio di M’sawize. Minatori provenienti da tutte le regioni circostanti avevano cominciato a lavorare in un’area ad abitare la quale, in precedenza, era solo una moltitudine di animali selvatici (Figura 7). Ben presto più di mille persone si misero in moto scavando alla ricerca di rubini. Ogni giorno decine di motociclette rumorose andavano avanti e indietro tra il nuovo cantiere e M’sawize per rifornire i minatori e vendere pietre. La zona si trasformò in qualcosa che assomigliava di più ad un campo di battaglia circondato da mucchi di spazzatura della prima guerra mondiale che ad una idilliaca riserva naturale africana. In più, dato che i minatori stavano arricchendosi e che era difficoltoso far arrivare il cibo in questa località isolata, bracconieri professionisti cominciarono a operare per rifornire i minatori. Campi minerari illegali come questo, dove la polizia e i rangers non sono i benvenuti, costituiscono per i bracconieri le perfette basi logistiche per nasondersi e arricchirsi.

Fig. 7 – Attività estrattive illegali all’interno della Riserva Nazionale di Niassa. (© Vincent Pardieu / GIA)

Nel corso della mia visita al quartier generale della Riserva Naturale di Niassa, a Maputo, alcune persone mi dissero che, durante la corsa alle gemme, nei pressi di M’sawize i cacciatori videro per due volte bracconieri, armati di AK47, cacciare bufali e che in pratica l’unica ragione per cui ci tennero prigionieri nella foresta e ci trattarono come seri sospettati era che il nostro guidatore (l’unica persona nella zona ad affittare macchine) era accusato di contribuire alle operazioni di bracconaggio nella zona. Per colpa dell’effetto combinato tra presenza umana invasiva e bracconaggio, in poco tempo la fauna selvatica finì spazzata via. Per l’impresa che aveva avuto la concessione di caccia la vicenda si risolse in un disastro non solo perché gli animali selvatici erano spariti, ma anche perché era stato rovinato il rapporto che avevano costruito con le popolazioni locali a causa dei conflitti derivati dall’attività mineraria. Per l’amministrazione della Riserva il pericolo era chiaro: se gli operatori turistici fossero stati costretti ad andarsene per l’impossibilità di lavorare a Niassa, allora si sarebbe dovuta trovare un’altra strada per mantenere le infrastrutture della Riserva, per pagare gli addetti anti-bracconaggio e finanziare l’ambientalismo.

Naturalmente per l’amministrazione della Riserva di Niassa, per i cacciatori e per gli ambientalisti, l’industria delle gemme era chiaramente qualcosa da aggiungere alla lista dei nemici di Niassa insieme ai bracconieri e ai disboscatori illegali. Pochi giorni dopo la fine del congresso, Avatar, un nuovo grande kolossal di Hollywood, raggiunse con successo gli schermi. Infatti, guardando il film all’indomani delle mie esperienze a Niassa, mi fu chiaro che l’immagine dell’industria mineraria potesse essere presto a rischio qualora si fossero verificati nuovi conflitti tra l’ambientalismo e l’attività mineraria. La mia speranza di riuscire a creare una relazione armoniosa, se non addirittura una sinergia, tra le gemme e la natura in Africa subì una battuta d’arresto, esattamente come svanì quella di Campbell Bridges che aveva dato inizio ad una combinazione tutta sua tra Tsavo e il granato verde grossularia.

Fig. 8 – Minatori di gemme mentre lavorano a Zahamena. (© Vincent Pardieu / GIA)
Fig. 9 – Minatori di gemme mentre lavorano a Zahamena. (© Vincent Pardieu / GIA)

Madagascar. Un crescente conflitto tra ambientalismo e attività mineraria

Presto potei rendermi conto che i miei timori diventavano realtà. Durante i miei viaggi in Madagascar dal 2005 al 2011, ho potuto prendere atto dell’esistenza di alcune attività minerarie nelle vicinanze dei Parchi Nazionali. Nel nord dell’isola, ad Ambondromifehy, all’interno del Parco Nazionale di Ankarana, si estraggono zaffiri dal 1996. Nel sud invece, in alcune zone dei Parchi Nazionali di Isalo, Ilakaka e Sakaraha hanno luogo attività estrattive sempre di zaffiri, su scala minore, dopo la scoperta di un consistente deposito di zaffiri. A quel tempo la questione non guadagnava i titoli di testa dei giornali ma era già abbastanza seria che diversi enti, compreso il WWF, la Banca Mondiale e la Tiffany Foundation commissionarono uno studio sulla “Corsa alle risorse minerarie artigianali nelle aree protette e sugli strumenti di contrasto”. Il lavoro fu completato nel giugno del 2012, pochi giorni dopo un’altra importante scoperta nei dintorni del villaggio di Didy, vicino ad Ambatondrakaza, città nord-orientale del Madagascar. Dopo Ambondromifehy e Ilakaka, era ora il momento di Didy, terzo caso in meno di vent’anni, e terza volta in cui aree protette del Madagascar venivano invase da minatori senza licenza. Nonostante tutto questo il reportage, scritto da Ruppert Cook e Thimothy Healy (Cook Healy, 2012), restò in un ambito piuttosto ristretto e riservato; né il governo né i media sembravano voler prendere la questione sul serio. Inoltre per i più il commercio procedeva come al solito e quindi non c’era nulla di cui preoccuparsi. Ciò nonostante le scoperte vicino a Didy furono l’inizio di qualcosa di più serio. Sulle prime, a partire dal 2000 e fino a quel momento, la regione di foreste collocata ad est della linea che collega Moramanga, Ambatondrazaka e Andilamena fece registrare pochi afflussi precipitosi di cercatori e tutte le scoperte avevano luogo al di fuori del corridoio che collega i Parchi Nazionali di Ankeniheny e Zahamena, area meglio conosciuta come CAZ (Figure 8 e 9). In seguito però i rinvenimenti vicino a Didy aprirono una stagione diversa, visto che ora la qualità delle pietre era davvero eccellente. La grande corsa attrasse molti compratori e non appena si accese la competizione e i prezzi lievitarono in una nuova realtà, in un mondo cioè dove si trovavano telefoni cellulari anche nei paesi più remoti (cosa che non accadeva dieci anni prima). Sempre più minatori decisero di tentare la fortuna come potei constatare visitando il luogo: oltre 10.000 minatori provenienti da tutta l’isola si affollarono nella miniera vicino a Didy (Pardieu, 2012). Tuttavia, siccome questo fenomeno si verificò nell’aria protetta del CAZ, le autorità reagirono inviando alcuni soldati e cominciò il gioco del gatto col topo.

Fig. 10 – Minatori alla ricerca di zaffiri nell’area protette vicino a Didy. (© Nirina Rakotosaona)
Fig. 11 – La routine giornaliera dei minatori è il “duro lavoro”. Ciò che li fa resistere è la speranza di trovare, un giorno, una di quelle pietre che possa renderli ricchi… (© Vincent Pardieu / GIA)
Fig. 12 – La routine giornaliera dei minatori è il “duro lavoro”. Ciò che li fa resistere è la speranza di trovare, un giorno, una di quelle pietre che possa renderli ricchi… (© Vincent Pardieu / GIA)

In seguito a questo afflusso di persone, molta gente del luogo (prospettori d’oro, contadini e cacciatori-raccoglitori) venne a conoscenza della presenza di gemme e del loro valore e, come c’era da aspettarsi, seguirono altre scoperte. Nel 2015 vennero scoperti rubini di altissima qualità nella foresta nei dintorni del villaggio di Ambodivoangy, all’interno del Parco Nazionale di Zahamena (Pardieu, 2015), a metà strada tra le precedenti scoperte a Didy e Andilamena. Così fui di nuovo testimone dell’invasione di 10.000 persone nella zona. Per me si fece chiaro che lo schema dei rinvenimenti rispondesse ad una disposizione ordinata: l’intera foresta che ricopriva la regione, compresa l’area protetta del CAZ, da est di Andilamena a nord e a sud fino a Moramanga (probabilmente anche più lontano), sembrava un gigantesco deposito di rubini e zaffiri in attesa d’essere scoperto. La geologia confortava questa ipotesi. Quando nell’ottobre del 2016 una ulteriore scoperta ebbe luogo vicino al villaggio di Bemainty, ancora una volta all’interno del CAZ, nessuno si meravigliò più di tanto. La cosa sorprendente era però la qualità delle pietre in quanto in poche settimane vennero estratti alcuni dei migliori zaffiri blu e arancioni mai trovati in Madagascar. La conseguenza fu che rapidamente più di 40.000 minatori si accalcarono sul posto (Pardieu 2016, 2017, Perkins 2016).

Fig. 13 – Minatore malgascio in cammino verso l’area mineraria di Zahamena. (© Vincent Pardieu / GIA)
Fig. 14 – La mappa mostra le differenti scoperte nell’area nord-orientale del Madagascar. Ambodivoangy, Bemainty e Didy si trovano all’interno dell’area protetta del CAZ. (© Vincent Pardieu)
Fig. 15 – Facchini trasportano le scorte per i minatori nei pressi di Bemainty. (© Vincent Pardieu)

Con una simile affluenza di minatori in movimento stavolta le cose non passarono inosservate. I prezzi s’impennarono velocemente e Tana, la capitale del Madagascar, era tutto un gran parlare fatto di voci che facevano circolare informazioni vaghe ma anche inesatte. Tra l’altro molte persone desiderose di nascondere i loro soldi cominciarono ad investire in zaffiri e gemme, più facili da occultare e trasportare rispetto all’oro e al denaro. Nell’Aprile del 2017 Edward Carver, un giovane giornalista che lavora per la Associated Press appena arrivato in Madagascar, raccolse alcune delle informazioni sensazionali che poté ottenere qua e là (anche dai miei stessi reportages e video pubblicati poche settimane prima) e, il 2 Aprile del 2017, pubblicò per la Associated Press un breve ma stupefacentemente parziale articolo che divenne virale dopo essere apparso sul Guardian. Pochi giorni dopo, Conservation International, l’importante organizzazione ambientale con sede a Washington che amministra il CAZ per conto del governo malgascio, pubblicò una dichiarazione sulla questione condannando le attività minerarie presenti all’interno del CAZ e appellandosi al governo per aver aiuto nel «mettere fine a questa attività illegale» (Figure 16 e 17). Il giorno seguente, il 6 Aprile, anche la CNN entrò nella questione con un suo articolo (Figura 18). Se da un lato, però, questo era meno fazioso di quello pubblicato dalla Associated Press, dall’altro uscì con un titolo di facile presa: “La nuova corsa agli zaffiri in Madagascar rischia di mettere in pericolo specie rare”, collocato appena sopra la foto di un lemure. Per finire poi la BBC mandò un corrispondente con squadra di operatori nel nuovo deposito minerario col risultato che, nel luglio del 2017, appena rientrati, sono stati pubblicati una serie di video, i quali dimostravano che l’attività estrattiva degli zaffiri stava mettendo a repentaglio la popolazione dei lemuri. Il lavoro continuava con un’intervista di un ambientalista Malgascio che esortava al boicottaggio degli zaffiri provenienti dal Madagascar. S’avveravano le mie paure: questo non era il tipo di promozione di cui il commercio degli zaffiri aveva bisogno. E’ sempre più evidente che in Madagascar gli ambientalisti responsabili della tutela ambientale guardano all’industria degli zaffiri come ad un avido nemico, un complice e un partner colpevole di sostenere e trarre vantaggio illegale dalla distruzione ambientale. Sì, questa volta la stampa sembrava molto interessata a dar conto della storia, ma in una maniera poco onesta.

Fig. 16 – Rangers di Niassa mostrano i rubini di scarsa qualità sequestrati in un sito illegale. (© Vincent Pardieu / GIA)
Fig. 17 – Minatori fuori legge riportano il loro equipaggiamenti in città dopo l’arresto. (© GIA)
Fig. 18 – Le prime pagine degli articoli della CNN e del WWF.

Nel recente video trasmesso dalla BBC si può vedere che, come abbiamo avuto modo di constatare sia io che Rosey Perkins nel visitare l’area pochi mesi prima, i giornalisti della BBC riuscivano a sentire la voce dei lemuri provenire dalla foresta vicino al sito minerario. Bene, se ogni visitatore che arriva è comunque in grado di sentire i lemuri dalle miniere persino un anno dopo l’inizio degli scavi, questo vuol dire solo una cosa: l’impatto dell’estrazione di zaffiri non è così devastante come la BBC lo sta descrivendo. A dire il vero mi sarei preoccupato maggiormente se non si fossero sentiti più i lemuri. Inoltre la BBC ha anche condannato i minatori di zaffiri per il disboscamento. Ebbene, mentre visitavo la zona nel Febbraio del 2017 e discutevo con alcune persone, ho anche scoperto che i minatori si sono insediati in un’area precedentemente spianata con il fuoco dei contadini che praticano un tipo di agricoltura taglia e brucia, localmente conosciuta come “Taavy”, che rappresenta il pericolo principale delle foreste del Madagascar. Una volta che le foreste sono state spianate dai contadini, i cercatori d’oro, stando a quanto è stato rivelato, sono venuti a scavare e in poco tempo hanno trovato gli zaffiri. A quel punto sono arrivati anche i minatori di zaffiri che hanno cominciato le proprie operazioni. A causa del “Taavy” c’era una grande quantità di rami secchi utili sia per cucinare che per costruire (Figura 19). Dunque, al di là di cosa dice la BBC, i minatori di gemme non possono essere considerati i maggiori responsabili della distruzione delle foreste che avviene in questi luoghi. Ad ogni modo, quando la legna messa a disposizione del Taavy si esaurirà, si prospettano danni più ingenti, eppure la BBC sembra più interessata a fare uno scoop che a raccontare le cose come stanno. Io sono dell’idea che il problema principale collegato all’attività estrattiva vicino a Bemainty non riguarda il bracconaggio dei lemuri o l’abbattimento degli alberi ma l’interrimento: dal momento che i minatori puliscono con acqua le gemme per liberarle dalla ghiaia, i corsi d’acqua si trasformano in fanghiglia. E così tutte le piante, i pesci e gli insetti che dipendono dai ruscelli sono destinati a soffrire per il problema dell’interrimento. Tuttavia i giornalisti della BBC non sono dei veri esperti sia in tema di ambientalismo sia in quello del commercio minerario e sono venuti con un copione già scritto piuttosto che con la volontà di scoprire cosa stesse realmente accadendo per produrre un serio servizio sulla corsa alle gemme. La verità è che i media sono affamati di storie dell’orrore.

Fig. 19 – Minatori che attraversano un’area precedentemente bruciata dai contadini con la tecnica del “taavy”. (© Vincent Pardieu)

Questo problema preoccupa sin dal 2012 e, fin dall’avvento dei minatori di gemme vicino a Didy all’interno del CAZ, l’organizzazione Conservation International raccoglie continuamente informazioni sui danni causati all’interno dell’area che cerca di proteggere. Il CAZ è stato individuato da Conservation Internationalche lo amministra per conto delle autorità malgasce come l’area chiave su cui concentrare gli sforzi in Madagascar. Andando a scavare lì, i minatori illegali di zaffiri stanno letteralmente invadendo il manto originario di vegetazione erbosa ingaggiando una lotta con il sofisticato e ben collegato Leviatano di Washington. Ambientalisti e ricercatori stanno compilando documenti articolati e precisi che dovranno codificare il danno causato. Presto si avranno alcune amare statistiche come il numero di alberi abbattuti, gli acri di terreno distrutti, le tonnellate di combustibile e di materiali inquinanti versati, l’impatto dell’interrimento, i nomi degli animali stanziali o delle specie di piante colpite dall’attività estrattiva, etc… E’ solo una questione di tempo e poi questi reportage verranno ultimati e pubblicati. La situazione potrebbe anche peggiorare una volta che l’industria mineraria in Madagascar, o da qualche altra parte, sarà sotto inchiesta per le problematiche della distruzione di habitat naturali, con il contributo di solidi dati raccolti con attenzione nel corso degli anni. Ci vorrà un solo pezzo rigoroso di giornalismo d’inchiesta, probabilmente commissionato proprio con l’intento di essere un attacco violento, per trasformare l’industria delle gemme in un sacco per pugili, messo lì per prendersi i pugni degli attivisti desiderosi di trovare una ragione per cominciare a combattere. Possiamo solo sperare che, quando arriverà quel momento, le persone che in futuro si interesseranno alle attività minerarie e all’ambientalismo in Madagascar avranno avuto un po’ di tempo per sedersi ad un tavolo e per discutere la questione e individuando una soluzione conveniente per tutti – e intendo veramente tutti – popolazione, governo malgascio, commercio delle gemme e tutela dell’ambiente. Questo sarebbe, almeno credo, nell’interesse dell’industria mineraria dal momento che il movimento ambientalista non va sottovalutato, perché gli ambientalisti sono belli e cari quando li annoveri tra gli amici ma diventano estremamente duri quando ce li si mette contro. Dopo aver visto cosa è successo alla potente industria delle pellicce quando si mise in rotta di collisione con Paul Watson e Brigitte Bardot, penso semplicemente che per noi del mondo delle gemme non si debba avere tra gli obbiettivi quello di inimicarsi gli ambientalisti.

Fig. 20 – Alcune delle attività di responsabilità sociale di Gemfields a Niassa.
Fig. 21 – Carcassa di elefante ucciso dai bracconieri. (© Vincent Pardieu)

Approfondimento sul Mozambico

Ma mentre in Madagascar la situazione diventava preoccupante, le cose in Mozambico alla fine non erano peggiorate, come temevo, sul versante della produzione di rubini. Invece le più profonde paure degli ambientalisti divennero presto realtà. La maggior parte dei minatori fuori legge lasciò Niassa dopo l’invio da parte del governo di truppe incaricate di chiudere i siti illegali. Fortunatamente per la popolazione di Niassa fu scoperto un nuovo giacimento di rubini nelle vicinanze di Montepuez, così la maggioranza dei minatori vi si trasferì perché per loro era più conveniente lavorarci, innanzitutto poiché il giacimento non si trovava più all’interno di una riserva ma vicino ad una strada e ad una città dove i compratori potevano facilmente collocare le proprie attività. Dopo l’arrivo di Gemfields nel 2011, le cose si fecero più difficili per i minatori illegali, anche se molti di questi non si spostarono da lì. Per quanto riguarda la tutela dell’ambiente poi, non solo sparirono i minatori di rubini illegali ma, nel 2014, Gemfields che estraeva rubini vicino alla Riserva di Niassa decise di dare il proprio sostegno alla difesa ambientale di Niassa come parte dei loro progetti CSR. Visitando il «Niassa Lion Project» di Colleen e Keith Beggand nel 2015, per prima cosa ho capito che loro non consideravano più l’estrazione di rubini come il pericolo numero uno per la popolazione dei leoni, in quanto i minatori illegali di rubini se n’erano andati. Ed inoltre adesso stavano ricevendo i finanziamenti di Gemfields. Tuttavia, sfortunatamente per Niassa, mi dissero anche che, se da un lato i minatori se ne erano andati, a partire dal 2014 si stava assistendo ad un’invasione di cercatori d’oro. E, cosa ancora peggiore, i cercatori si servono del mercurio per estrarre l’oro, e dunque l’inquinamento dei fiumi dovuto al mercurio s’è andato ad aggiungere alla lista dei problemi causati dall’industria mineraria (Figure 22 e 23). Quando ero al Niassa Lion Project ho avuto la conferma del disastro. Infatti, durante un pattugliamento di tre giorni insieme ai Rangers del posto, li ho visti prendere più di 100 cercatori d’oro illegali, come riferito nel documentario pubblicato dal GIA nel 2017 dedicato “alla tutela dell’ambiente e alle attività estrattive di oro e di rubini in Mozambico”. In quel periodo mi è stato fatto presente che, a seguito di alcune ricognizioni aeree, si stimava in oltre 10.000 il numero dei cercatori d’oro ancora in circolazione in varie zone di Niassa. Purtroppo le previsioni dell’amministrazione della Riserva di Niassa si avverarono dal momento in cui, a partire dal 2015, la presenza dei cercatori illegali favorì i bracconieri di elefanti che potevano grazie a loro nascondersi quando necessario ed essere informati sugli ultimi movimenti servendosi di questi villaggi a vantaggio delle loro attività di caccia di frodo, senza nemmeno doversi preoccupare di essere arrestati dalle squadre anti-bracconaggio, le quali senza dubbio lì non sono benvenute. Nel giro degli ultimi tre anni la Riserva di Niassa ha perso 16.000 dei 20.000 elefanti che la popolavano prima dell’arrivo dei cercatori d’oro.

Fig. 22 – Mercurio e trappole lasciate dai cercatori d’oro a Niassa. (© Vincent Pardieu / GIA)
Fig. 23 – Mercurio e trappole lasciate dai cercatori d’oro a Niassa. (© Vincent Pardieu / GIA)

Come procedere?

E’ facile per i giornalisti usare i poveri minatori che lavorano nelle aree protette, e che costituiscono un bersaglio facile e visibile, per gettare fango sull’industria delle gemme, accusandola dell’estinzione di specie a rischio come i lemuri. D’altro lato, ci sono molte cose che sono state fatte perché gli ambientalisti possano guardare all’industria delle gemme più come un potenziale alleato che un facile bersaglio. L’industria è regolarmente a lavoro sul problema delle pratiche sostenibili (Archuletta, 2016) ma, più specificamente in merito alla tutela dell’ambiente, ci sono diversi punti su cui si potrebbero concentrare i principali soggetti di ambedue le parti.

Analizzando il problema dell’attività estrattiva e dell’ambientalismo in Mozambico, appare chiaro che (oltre all’inquinamento da mercurio) questo in sostanza è da mettersi in relazione al fatto che estrarre gemme è illegale: dal momento che l’estrazione è fuori legge, ci sono altri tipi di commercio (come il bracconaggio) che si avvantaggiano dei siti illegali. Adesso, se l’attività estrattiva potesse essere legalizzata e diventasse «conservation friendly», allora si potrebbe immaginare una situazione inversa per cui i siti minerari si potrebbero usare come delle basi logistiche per i Rangers invece che dei supporti per i cacciatori di frodo.

Fig. 24 – Miniera di zaffiri nei pressi di Bemainty. (© Vincent Pardieu)
Fig. 25 – Campo presso la miniera di zaffiri di Bemainty. I minatori si sono insediati su una “taavy”, un’area precedentemente spianata con il fuoco dai contadini. (© Vincent Pardieu)

Inoltre, se estrarre gemme fosse legale anche nelle aree protette, l’intera questione si ridurrebbe a trovare il modo di non entrare in contrasto con la tutela dell’ambiente. I minatori interessati a lavorare nelle zone protette potrebbero discutere i metodi di estrazione riducendo l’impatto sull’ecosistema attraverso la limitazione di pratiche non necessarie come i disboscamenti, lo spargimento di rifiuti e gli interrimenti nei corsi d’acqua, e dando il loro supporto all’anti-bracconaggio. Potrebbero collaborare nel risanare l’area una volta concluse le estrazioni. Inoltre le attività minerarie (e il commercio) nelle aree protette sarebbero anche in grado di produrre delle risorse finanziarie per la tutela dell’ambiente attraverso la concessione da parte dei commercianti o dei minatori di licenze a pagamento, valide per operare in determinate aree.

Anche se per gli ambientalisti risulta difficile dare il consenso alle attività estrattive (anche se su piccola scala e rispettose dell’ambiente) lasciandole operare nelle aree protette, bisogna pur trovare una soluzione capace di sostituire migliaia di lavoratori fuori legge, come quelli presenti in Mozambico o in Madagascar, con pochi minatori riconosciuti e in stretta collaborazione con il movimento ambientalista: e con questo non intendo tirare in ballo le grandi imprese. In momenti di corsa alle gemme, far lavorare i minatori a certe condizioni, almeno fin quando si registrano e aderiscono alle associazioni locali, può essere un modo efficiente di mantenere l’ordine pubblico e di tenere l’afflusso spontaneo sotto controllo come ho visto fare in diversi luoghi.

In paesi come l’Australia e lo Sri Lanka, ho potuto fare esperienza di come l’attività estrattiva è tenuta sotto controllo da leggi molto severe per ridurne al minimo l’impatto ambientale. Tali leggi non sono perfette ma, quando i rappresentanti dell’industria mineraria e gli ambientalisti si siedono a parlare di queste problematiche, alla fine si trova sempre qualche soluzione che mette tutti d’accordo, se c’è la buona volontà da ambo le parti. Dopotutto, quando è organizzata correttamente, un’operazione mineraria crea meno danni ad un’area di quanti ne farebbe un hotel. Inoltre, in posti come il Vietnam, mi sono anche reso conto di come le operazioni minerarie possano creare degli ulteriori sbocchi occupazionali per i villaggi circostanti, come ad esempio la fabbricazione di oggetti del tipo di dipinti, incisioni su gemme che possano poi essere venduti ai visitatori delle aree protette e delle regioni circostanti come souvenirs. Inoltre questi oggetti si possono anche usare come decorazioni per gli hotel, gli edifici pubblici o religiosi e case private (Figura 28).

Fig. 26 – Un ranger di Niassa raccoglie informazioni dai minatori sorpresi ad estrarre illegalmente dell’oro all’interno della Riserva di Niassa. (© Vincent Pardieu / GIA)
Fig. 27 – Alcune delle attività di responsabilità sociale di Gemfields a Niassa.

Ma questo non è l’unico modo in cui l’industria delle gemme può aiutare la tutela ambientale: io ritengo che ci sia un grande potenziale perché la gente del mondo delle gemme associ i propri prodotti a buoni progetti e/o persone perbene. La ragione fondamentale di tutto questo è che, se non lo facciamo, allora non potremmo dire nulla quando accosteranno le nostre gemme o la nostra industria alle attività criminali o alla distruzione dell’ambiente.

Questo è ciò che ho dedotto dalla mia esperienza in Mozambico nel 2009. Da allora sto cercando di cambiare il mondo attraverso il cambiamento di me stesso. Ho deciso di aderire al Niassa Lion Project al fine di dimostrare agli ambientalisti come Colleen e Keith Begg che nel commercio delle gemme non tutti sono loro nemici. Spesso mi dicevano che l’ambientalismo consiste nel convertire le persone una ad una… Ebbene, voglio convincerli che è vero anche il contrario e cioè che anche chi è innamorato delle gemme può convincere un ambientalista di non essere un suo nemico. Io non sono un minatore o un commerciante di pietre, non ero che un gemmologo innamorato della natura. Mi è apparso chiaro che, se altre persone agissero nella stessa maniera, questo potrebbe fare la differenza. Pensavo ad esempio ad una cosa che sarebbe fantastica: mettiamo che un gioielliere voglia lavorare su un pezzo che ritrae una pantera. Potrebbe decidere di promuovere e finanziare un progetto di conservazione delle pantere. E se poi quel gioielliere fosse un’importante azienda come Cartier (che è famosa per usare regolarmente le pantere nei disegni e nelle pubblicità) sarebbe ancora meglio, in quanto molti ambientalisti lo vedrebbero come un riferimento positivo. Per questo sono stato contentissimo quando pochi anni fa Gemfields ha deciso di sostenere il «Niassa Lion Project» come parte della loro attività di responsabilità sociale (CSR) (Figura 27).

Ma alla fine non dobbiamo neanche aspettare che i colossi come Gemfields agiscano nel modo giusto perché ognuno può associare la propria attività ad un buon progetto: le gemme possono essere un supporto per la tutela ambientale ma anche, e perché no, per l’istruzione, per la salute e così via discorrendo. Dopotutto, le pietre e i gioielli sono due prodotti durevoli, e la stessa gemma proveniente da un determinato territorio, anche se estratta poche centinaia di anni fa, può essere usata per promuovere e finanziare una buona iniziativa nell’area di provenienza ogni qual volta viene venduta. Questa è la mia teoria riguardo al «Conservation Gemstones» che ho presentato durante la mia avventura a Niassa (Pardieu 2009, Cartier and Pardieu 2011) e che inizio a promuovere da oggi con questo articolo: in pratica da membri dell’industria mineraria è nostro dovere far capire agli ambientalisti che non siamo loro nemici. Dare sostegno alla tutela dell’ambiente (o a qualsiasi altra iniziativa) non solo migliorerà l’immagine della nostra industria, del nostro business e di noi stessi in un momento critico come questo (basti pensare alla situazione in Madagascar), ma farà anche la differenza nelle aree dove vengono estratte le gemme. Sostenere buoni progetti ci farà convincere uno ad uno gli ambientalisti. Infine in questo modo faremo sì che ognuno avrà delle sensazioni migliori a contatto con le pietre con cui lavora compreso il consumatore o le consumatrici, a cui piacciono e che le indossano.

Fig. 28 – La pittura e l’incisione sulle gemme possono aiutare a creare occupazione nei villaggi intorno alle miniere e a produrre oggetti che finanzino la conservazione. (© Vincent Pardieu)
Fig. 29 – Un minatore mostra un lotto di Tsavorite, la gemma verde che prende il nome dal Parco Nazionale dello Tsavo. Un’idea fantastica che può essere riutilizzata per associare più gemme alla conservazione delle aree. (© Vincent Pardieu)

Note sull’autore

Vincent Pardieu è Field Gemologist & Consultant presso VP Consulting.

 

Bibliografia

Archuletta, J.L., (2016) « The color of responsability : Ethical Issues and Solutions in Colored gemstones », Gems & gemology, Summer 2016, Vol 52, No2, https://www.gia.edu/gems-gemology/summer-2016-color-responsibility-ethical-issues-solutions-colored-gemstones
Cartier, L.E., Pardieu, V., (2011) « Conservation gemstones : Beyond Fair Trade ? » http://www.conservationgemology.org/Conservation gems beyond Fair Trade.php
Carver, Edward (2017), “Madagascar forest overwhelmed by thousands seeking sapphires”, Associated Press, https://apnews.com/d53ad819318b4440b93e710e97345c51/madagascar-forest-overwhelmed-thousands-seeking-sapphires
Clarke, J. (2012) « Save me from the Lion’s mouth : Exploring Human-Wildlife conflict in Africa » ISBN 978 1 92054 475 1
Conservation International: http://www.conservation.org/NewsRoom/pressreleases/Pages/Statement-by-Conservation-International-on-Illegal-Sapphire-Mining-in-Madagascar.aspx
Cook, R., Healey, T., (2012) “Madagascar Case Study: Artisanal mining rushes in protected areas and a response toolkit”, https://portals.iucn.org/library/sites/library/files/documents/Bios-Cons-Nat-Pro-691-008.pdf
Monks, K., (2017) “New sapphire rush in Madagascar may threaten rare species”, CNN, http://edition.cnn.com/2017/04/06/africa/sapphire-rush-madagascar/index.html
Pardieu, V., Hughes, R.W. (2008) « Tsavorite, an Untamed Beauty », InColor, Fall 2008, pp. 36-45 http://www.fieldgemology.org/Tsavorite_article.php
Pardieu, V., Jacquat, S., Senoble, J.B., Bryl, L.P., Hughes, R.W., Smith, M., (2009b). “Expedition report to the Ruby mining sites in Northern Mozambique (Niassa and Cabo Delgado provinces)”, from http://www.giathai.net/pdf/Fieldtrip_to_Mozambique_December_16_2009.pdf.
Pardieu, V., (2012) « Ruby and Sapphire rush near Didy, Madagascar (April – June 2012) », http://www.giathai.net/pdf/Didy_Madagascar_TH.pdf
Pardieu, V., Vertriest, W., Weeramonkhonlert,V., Raynaud, V., Atikarnsakul, U., Perkins, R., (2017) “Sapphires from the gem rush Bemainty area, Ambatondrazaka (Madagascar)”, https://www.gia.edu/doc/Sapphires-Gem-Rush-Bemainty-area-Ambatondrazaka-Madagascar-v2.pdf
Pardieu, V., Jacquat, S., Bryl, L.P., Senoble, J.B., Hughes, R.W., Smith, M. (2009) « Expedition report to ruby mining sites in Northern Mozambique (Sept. – Dec. 2009) » http://www.giathai.net/pdf/Fieldtrip_to_Mozambique_December_16_2009.pdf
Patterson, J.H. (1907) « The man-eaters of Tsavo »
Perkins, R., (2016) “Thoughts on a visit to a sapphire rush near Ambatondrazaka, Madagascar”, www.roseyperkins.com, http://roseyperkins.com/visit-sapphire-rush-near-ambatondrazaka- madagascar/

 

Articolo di Vincent Pardieu, pubblicato su Rivista Italiana di Gemmologia n. 2, Settembre 2017.

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