sabato, Aprile 27, 2024
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Il diamante di 709 carati, Rapaport, l’etica e le aste in Sierra Leone

Aggiornamento 2023: Quattro anni fa è uscito questo articolo, pubblicato sul nr. 7 della Rivista Italiana di Gemmologia (Estate 2019). Sergio Sorrentino, uno degli storici collaboratori di IGR, è entrato nella missione organizzata ad ottobre 2023 da Martin Rapaport in Sierra Leone, uno dei paesi più poveri al mondo, dove meno della metà della popolazione si aspetta di superare i cinquant’anni. In questo modo ha potuto verificare in prima persona che il ritorno per la comunità c’è stato ed è stato concreto: scuole, ospedali e aiuti per l’agricoltura. IGR ha presentato i dettagli della missione di Sergio sul campo. Per meglio comprendere la realtà dei diamanti alluvionali di quel paese e lo sforzo etico che si sta mettendo a punto pubblichiamo gli antefatti. Un diamante di 709 carati, scoperto per caso e posto sul mercato da Rapaport, ha avviato un processo virtuoso per aiutare il paese, devastato da una sanguinosa guerra civile e colpito da un’epidemia di Ebola nel 2014, ad uscire dalla povertà assoluta. 

Il diamante di 709 carati, Rapaport, l’etica e le aste in Sierra Leone

Nel marzo del 2017 un diamante ha guadagnato i titoli di testa dei media internazionali. Si trattava di un grezzo di 709 carati, il 14° più grande ritrovamento di tutti i tempi, rinvenuto a Koryardu nella regione diamantifera alluvionale di Kono nella Sierra Leone, uno dei paesi più poveri al mondo, dove meno della metà della popolazione si aspetta di superare i cinquant’anni.

Cos’è successo dopo gli annunci eclatanti? Parte del ricavato è tornato indietro per aiutare lo sviluppo? Che c’entra Martin Rapaport con tutto questo?

Il “Peace Diamond” da 709 carati. (Foto: peacediamond.com)

Sfigati al fondo della catena di fornitura

A trovare questo diamante gigante era stato un gruppo di cercatori ingaggiati da Emmanuel Momoh, quello che l’economia mineraria locale definisce un “supporter”.

Il “supporter” è una tipica figura della catena di fornitura dei diamanti dell’area di Kono. Assume i propri minatori per circa 2,50 US$ al giorno, riceve i grezzi che questi rinvengono e rivende il materiale adatto ai broker del posto, che a loro volta li collocano nel mercato più grande di Koidu. In questa città si svolgono le operazioni del commercio regionale dei diamanti, controllato da grossisti per lo più di origini libanesi o Maraka (africani occidentali di lingua francese). La debolezza delle parti venditrici viene sfruttata dai compratori, più organizzati, che facendo cartello sottopagano in nero i diamanti grezzi. I “supporter” con le loro squadre di minatori guadagnano una frazione insignificante – ma in contanti, per il proprio sostentamento – di quanto renderanno i diamanti lavorati alla fine della catena produttiva. Questo tipo di organizzazione va avanti da decenni, tollerata – per non dire incoraggiata – dalle autorità regionali e nazionali.

Diversamente dai paesi nei quali i diamanti si trovano nei camini kimberlitici a grande profondità e sono dunque sfruttati, in virtù di elevati investimenti, in aree limitate e recintate, la Sierra Leone dipende, per il 90% dei suoi diamanti, da depositi alluvionali affioranti. Questi sono pertanto un obiettivo alla portata di un gran parte di popolazione. Le eruzioni vulcaniche hanno riversato materiali in superficie lungo le valli orientali dell’attuale Sierra Leone, rendendo disponibili i diamanti in una vasta area su terreni superficiali.

L’origine alluvionale fa sì che la presenza di diamanti grezzi preziosi o meno sia diffusa sul territorio in modo casuale. In un simile scenario i minatori artigiani vanno a tentare la fortuna con solo qualche vanga e qualche modesto attrezzo.

Ma la Sierra Leone, con un settore agricolo che produce più della metà del PIL e priva di un tessuto industriale, ha un disperato bisogno di finanziare il proprio sviluppo con le risorse naturali. L‘export complessivo è costituito dal ferro per il 25%, dal titanio per il 17% e dai diamanti che rappresentano solo il 12% del totale poiché una buon parte del traffico sfugge ai dati ufficiali. Devastato da una sanguinosa guerra civile e colpito da un’epidemia di Ebola nel 2014, il paese conta tra i 300.000 e i 400.000 minatori artigianali e cerca di fondare sui propri diamanti le aspettative di crescita.

Minatori di diamanti in Sierra Leone, nel distretto di Kono. (Foto: USAID/Wikimedia Commons)

Lo straordinario diamante grezzo finisce in un’Asta di Rapaport

Oltre ad essere un minatore artigiano, Emmanuel Momoh è anche pastore della chiesa locale. Quando s’è trovato tra le mani quella gemma mozzafiato non ha pensato di rivolgersi come al solito al mercato parallelo. Ha invece provato ad utilizzare la pietra aggirando quello che era un destino segnato, il contrabbando, ed ha optato per la legalità. L’ha quindi mostrata a Paul Garba Saquee, un funzionario con funzioni direttive della regione, il quale lo ha direttamente indirizzato all’allora Presidente Ernest Bai Koroma dichiarando: “Per scoraggiare il contrabbando Il governo vuole che la gente porti fuori i propri diamanti”. Questa era una buona occasione per far saper al mondo che la Sierra Leone non meritava la cattiva reputazione derivante dai tempi nei quali Hollywood si ispirava ai suoi blood diamonds per il celebre film di Leonardo Di Caprio.

Oltretutto il governo era proprio alla ricerca di qualche buona notizia per contrastare le accuse di corruzione per la presunta mancanza di oltre 14 milioni di US$ dal fondo destinato al paese per l’epidemia di Ebola. Si decise allora di organizzare nella capitale Freetown – cosa mai fatta prima d’allora – un’asta espressamente allestita per l’impressionante grezzo di diamante rinvenuto a Koryardu.

Tuttavia Momoh, sorprendendo tutti, rifiutò nell’asta di maggio 2017 un’offerta di 7,7 milioni di US$ da parte di Ziad Al-Ahmadi, cittadino britannico con base ad Anversa, a quanto risulta riferibile all’azienda Raydiam BVBA. Nell’occasione dichiarava: “Per il diamante non mi aspetto meno di 50 milioni di dollari”. E così l’asta governativa del superbo diamante non si concluse con la sua vendita, nonostante il Presidente stesso lo mostrasse in TV con annunci ripetuti secondo i quali una parte dei proventi sarebbero stati restituiti – come richiedeva il proprietario Momoh – alla povera comunità di Koryardu che era priva di elettricità, acqua corrente, ospedali ed infrastrutture di base.

Dopo un ulteriore tentativo di commercializzazione della pietra – ribattezzata nel frattempo “Peace diamond” – ad Anversa il 2 ottobre 2017, il governo della Sierra Leone nominò agente il rinomato gruppo Rapaport che due mesi dopo l’ha posta all’asta a New York offrendo gratuitamente il proprio servizio di mediazione. L’offerta migliore, ammontante a 6,5 milioni di US$, è arrivata dal gioielliere britannico Graff. Un’offerta del genere, al di sotto delle attese, si spiega con i dubbi sugli esiti finali del taglio del grezzo, dal quale si ipotizzava di ricavare una goccia di oltre 100 carati, assieme a numerose pietre più piccole, tutte certificate dal GIA (Gemological Institute of America).

Sierra Leone, il paese dove è nato il concetto di diamante etico

Martin Rapaport, leader di uno dei più importanti gruppi di fornitori di servizi per l’industria dei diamanti, ha intravisto nella gigantesca gemma grezza posta all’asta il simbolo di quello che per lui è un passo ineludibile che tutto il comparto deve procedere a fare nella direzione di un business più responsabile. Il suo orientamento ad incoraggiare lo sviluppo dei diamanti della Sierra Leone mediante un approccio etico non è una novità ma un impegno che risale al 2000 allorché fu l’ONU a coinvolgerlo nel processo di pace in Sierra Leone. Ricorrere ad uno specialista era un fattore chiave per metter mano all’intrigo di una guerra civile che alla fin fine si poteva ridurre al controllo delle aree diamantifere, veri e propri bancomat che foraggiavano il conflitto con i contanti delle transazioni. Nel 2002, al termine della guerra, Rapaport interviene di nuovo nel paese nell’Integrated Diamond Management Program, un’operazione di sostegno finanziata dall’USAID, creando cooperative che garantivano ai minatori salari migliori rispetto alle miserevoli condizioni del periodo bellico. Il tentativo, che di fatto rendeva il gruppo Rapaport una sorta di “supporter”, ma più grande, non è riuscito poiché gli investimenti richiesti superavano i proventi generati dallo scarso materiale prezioso raccolto.

Martin Rapaport insieme al Ministro delle Miniere della Sierra Leone, Alhaji Minkailu Mansaray. (Foto: peacediamond.com)

Erano anni in cui le condizioni relativamente facili di sfruttamento dei depositi alluvionali propiziavano un clima di generale ottimismo politico che attraeva in Sierra Leone molte istituzioni internazionali di sostegno allo sviluppo. Anche dopo l’introduzione dello Schema di Kimberley, un accordo transnazionale su base volontaria che aveva del rivoluzionario, il dibattito etico era rimasto su basi puramente teoriche, nell’ambito della RSI. Questo poteva essere il momento giusto per rimettersi in moto ed il gruppo Rapaport da quel frangente prese spunto ed ispirazione per introdurre per la prima volta, la questione della due diligence nella pratica ordinaria del business. Ecco allora che nel 2006 Rapaport lancia, in collaborazione con la Fair Trade Labeling Organizations International (FLO) con sede in Germania, il progetto Fair Trade Diamonds. Si trattava di un programma intrapreso nella scia favorevole di iniziative di successo basate su caffè, cacao, zucchero, fiori, riso ed altre materie prime vendute in ottemperanza a politiche di responsabilità a sostegno di comunità locali di paesi in via di sviluppo in condizioni di ecocompatibilità.

La moralità può fare del mondo un posto migliore. Chi contribuisce volontariamente a quest’aspirazione umana legittima un nuovo valore aggiunto, quello etico

Nei confronti del commercio solidale (Fair Trade) quello di Martin Rapaport è un approccio pragmatico, che era evidente nel caso della Sierra Leone già alcuni decenni orsono: “Non c’è bisogno d’essere idealisti. Si può essere interessati al commercio solidale dei diamanti (Fair Trade Diamonds) anche da avidi maiali (greedy pigs). Qui i soldi sono sul banco”. In poche parole, le ragioni etiche non si limitano ad una semplice questione di moralità ma hanno a che vedere con la creazione di un valore nuovo di zecca, quello della responsabilità: “So che può sembrare una cosa folle” ha detto, “ma se diciamo ai consumatori che ci sono diamanti che rendono il mondo un posto migliore, ci sono donne ricche in California che per questo pagheranno volentieri di più”.

Le iniziative di commercio solidale (Fair Trade) richiedono un ruolo attivo da parte delle ONG che di preferenza si dedicano al settore dell’agricoltura e sono alquanto riluttanti ad intervenire nella catena di valore dei diamanti operando in paesi difficili come la Sierra Leone. Ed allora altri soggetti hanno avviato programmi di sostegno dei minatori artigianali, come DDI (Diamond Development Initiative) tra i cui membri figurano, oltre allo lo stesso Rapaport, De Beers, International Diamond Manufacturers Association assieme a svariate ONG. Nel marzo del 2019 DDI, a conclusione di sperimentazioni in Sierra Leone durate sette anni, ha avviato il “Maendeleo Diamonds” (Maendeleo in Swahili vuol dire sviluppo), uno schema di certificazione per quei diamanti, per lo più di aree alluvionali, che possono essere considerati estratti in zone libere da conflitti con metodi non violenti, nel rispetto dei diritti dei lavoratori in modalità di sostenibilità ambientale. A tale iniziativa s’è andato ad agganciare nel mese di aprile 2019 un programma di De Beers, una piattaforma digitale per garantire la tracciabilità dei grezzi rinvenuti dai minatori membri.

Mappa della Sierra Leone con indicate le aree di estrazione dei diamanti. (Foto: Sierra Leone: Inside the war)

L’ultima proposta del gruppo Rapaport: aste a sostegno delle comunità locali

Per quello che attiene al caffè ed ad altri prodotti agricoli affini, beni che rientrano nel novero delle commodities, fungibili e assoggettate a precisi listini di mercato, una politica efficace di Fair Trade sostenuta dalle ONG può essere messa in pratica in modo relativamente facile. Questa infatti può essere concentrata sulla legittimità e sull’integrità delle produzioni di determinate aree, sulle loro condizioni di ecosostenibilità e sulle relazioni da esse poste in essere con le comunità locali. La stabilità dei prezzi delle commodities non è un problema di chi produce. Ma differente è il caso dei diamanti d’origine alluvionale sparsi su un vasto territorio, come quelli della Sierra Leone, poiché i prezzi sono ancora negoziati pezzo per pezzo e solo una piccola percentuale del valore resta nel paese, ed una ancora minore va ai minatori.

Martin Rapaport ha già affrontato questo stretto passaggio che ostacola il percorso verso possibili strategie di sviluppo. Ha fatto tesoro delle sue esperienze precedenti maturate sul posto per oltre due decenni. A seguito di un lavoro preparatorio che ha impegnato anche due dei suoi figli ha condotto 29 diamantari e gioiellieri in Sierra Leone ad aprile 2019 in una missione commerciale internazionale che ha presentato una proposta al governo che, a suo giudizio, potrebbe ottimizzare l’industria del diamante nel paese. Il modello si incentra sull’organizzazione dell’estrazione artigianale così com’è, solo che ora i cercatori ed i “supporter” potrebbero conferire le pietre direttamente ad una rete nazionale, ramificata sul territorio ed allestita da Rapaport, di centri che organizzano aste settimanali, accessibili a tutti i minatori, tanto con licenza che senza, e solo a compratori registrati. Questo sistema ricompenserebbe, a valore corretto di mercato, tutte le parti in causa operanti sul territorio, dai minatori all’autorità governativa, secondo la legge “Sierra Leone Mines and Minerals Act” del 2009. Questa legge prevede che il 60% del valore dei diamanti debba essere corrisposto al governo. Una percentuale del 25% di questo 60% (in pratica il 15% del valore totale) verrebbe assegnato alle comunità presso le quali il diamante è stato rinvenuto.

A proposito di valore, una parte dei 6,5 milioni di US$ pagati per lo straordinario grezzo di 709 carati è mai tornata indietro al villaggio di Koryardu? Al pastore ecclesiastico, Emmanuel Momoh, secondo quanto riportato dalla stampa, è stata sollecitamente corrisposta la sua quota di 2,5 milioni di US$ che ha in parte girato ai suoi minatori, 130.000 dollari per ognuno di loro. Sembra che abbia fatto la sua parte fino in fondo donando contributi simili alla chiesa di Kono ed alle località locali. Per sé stesso ha trattenuto il resto, circa 1 milione di dollari, che investito in immobili.

Minatore nei depositi alluvionali di diamanti della Sierra Leone. (Foto: USAID / Wikimedia Commons)

Ed ecco cosa ne è stato dei 6,5 milioni di dollari

I resoconti che giungono dall’area di Kono ci mostrano abitanti sfiduciati, frustrati ed impazienti poiché il “diamante della pace” ancora non li ha ricompensati nonostante il governo abbia promesso strade nuove, un centro medico, una scuola, miglioramenti alle scadenti infrastrutture. Emmanuel Momoh è contrariato, da Freetown non è tornato indietro nulla. “Se il governo non mantiene le promesse” – ha detto – “penso che si spezzerà il rapporto di fiducia e la gente non porterà più diamanti al governo“. Se in basso non si materializzano ritorni tangibili, non ci saranno ritorni nel valore etico al vertice della catena. Questo finirà inevitabilmente con intaccare in negativo il piano di Martin Rapaport di istituzionalizzare il modello Peace Diamond concepito, a suo giudizio, nello spirito del “Tiqqun ‘olam”, una nozione della kabala che ha finito per connotare un’azione sociale intrapresa con l’intenzione di fare una “riparazione del mondo”. Prima che i benefici etici siano evidenti ed utili per “aggiustare” le complesse situazioni legate alle economie in via di sviluppo c’è un bel po’ di lavoro da fare con i governi regionali, le comunità locali, le istituzioni internazionali, gli operatori organizzati, i cartelli e, last but not least, i minatori.

A cura di Domenico Angelino, pubblicato su Rivista Italiana di Gemmologia n. 7, Estate 2019.

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