domenica, Aprile 28, 2024
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La gemmologia scientifica italiana è ripartita da Bari. La rassegna completa

La conferenza nazionale “Diamanti e gemme di colore, genesi, provenienze e implicazioni di mercato”, ospitata dal Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, si è tenuta nel capoluogo pugliese il 22 ed il 23 luglio 2021. Anche prescindendo dai tanti spunti e contenuti evidenziati nelle giornate di lavoro, l’evento resta significativo. Come tutte le discipline basate sull’esperienza diretta e sull’avanzamento della ricerca, anche la gemmologia aveva bisogno di un incontro reale, una condivisione vis a vis di nuovi temi e nuove risposte. Pure ci sono stati pochi interventi “a distanza”, ma l’impressione è che tutti i partecipanti abbiano riscoperto il bisogno di ricostruire una comunità di persone accomunate da bisogni e prospettive comuni. IGR, media partner, ha sponsorizzato l’evento e lo ha promosso. In queste pagine riportiamo una rassegna schematica dei contenuti degli interventi.

Rassegna dei contenuti degli interventi

Gaston Giuliani – Geologia e genesi dei depositi di rubini

Gaston Giuliani dell’Università Paul Sabatier di Tolosa (Géosciences Environnement) ha introdotto la sessione con una rassegna complessiva della geologia e della genesi dei depositi primari e secondari dei rubini su scala planetaria. Ha proposto, illustrandola con abbondanza di dati caratterizzanti, una loro possibile classificazione in tipi e sottotipi: 1 (depositi magmatici: 1A xenocristi o xenoliti ospitati da basalti basici, Madagascar; 1B xenocristi in kimberlite, Congo); 2 (depositi metamorfici: 2A in rocce feniche e ultra femiche; 2B depositi metasomatici ad alta interazione fluidi-rocce, Montepuez Mozambico, Madagascar, John Saul Mine in Kenya, Mogok Myanmar, Aappaluttoq Groenlandia); 3 (depositi sedimentari).

Per pervenire ad una classificazione e a modelli genetici, la caratterizzazione dei depositi deve necessariamente prendere in considerazione i dati chimico-fisici, le condizioni di pressione-temperatura e quelle di cristallizzazione, l’origine degli elementi costituenti e l’età di formazione.

La distribuzione planetaria dei depositi è strettamente connessa al ciclo di Wilson (collisione, rift e geodinamiche di collisione). I rubini si formano in ambienti femici e felsici oppure in piattaforme di carbonati metamorfosati ma è sempre associato a rocce povere di silice (l’alluminio infatti si combinerebbe preferenzialmente con la silice dando piuttosto origine a feldspati e a miche) ma ricche d’alluminio.

Il rubino presenta, come minerali principali associati, il plagioclasio, gli anfiboli, il pirosseno, la biotite, la zaffirina, la flogopite ed i carbonati. Per quanto riguarda la datazione dei depositi è utile l’analisi delle caratteristiche di alcune inclusioni, segnatamente zirconi, monazite, rutilo, titanite e mica. Il deposito più antico è Aappaluttoq in Groenlandia, dove il rubino si è formato durante l’Archeano a 2,71 Ga, ma l’epoca principale di formazione è stata quella dell’orogenesi panafricana (750–450 Ma) di cui sono esempi: la miniera John Saul in Kenya, Longido in Tanzania, e i depositi del Madagascar meridionale, tutti formatisi intorno a 610 Ma. Il terzo periodo corrisponde all’orogenesi himalayana del Cenozoico (55 Ma Quaternario) con i famosi depositi di rubino ospitati nel marmo nell’Asia centrale e sudorientale come Thureing Taung a Mogok e Mong Hsu. Il quarto periodo è caratterizzato dall’estrusione di basalti alcalini nel Cenozoico nel quale il rubino (e lo zaffiro) sono stati trasportati come xenocristalli o in xenoliti dai magmi.

Fig. 1 – Diagramma temporale a spirale della formazione dei corindoni e dei loro depositi. (Foto: Gaston Giuliani da “Ruby Deposits: A Review and Geological Classification”, UBC, License CC BY 4.0)

Giovanni B. Andreozzi – Meccanismi di formazione del colore negli spinelli

Giovanni B. Andreozzi, professore ordinario di Mineralogia presso l’Università La Sapienza di Roma, ha illustrato i risultati di una ricerca sui meccanismi di formazione del colore negli spinelli. Il lavoro ha preso in esame 20 campioni analizzati grazie alla microsonda elettronica (per ottenere la composizione chimica) in combinazione con indagini di spettroscopia di assorbimento ottico UV-VIS-NIR-MIR e FTIR. Alcuni campioni, selezionati fra quelli contenenti Fe, sono stati analizzati tramite diffrazione a raggi X e spettroscopia Mössbauer, per ricavare informazioni sullo stato di ossidazione del Fe e sulla distribuzione intracristallina di Fe2+ e Fe3+. Questi ioni infatti sono, assieme a Cr3+ e V3+, variamente distribuiti fra i siti strutturali a coordinazione tetraedrica (T) e ottaedrica (M) del cristallo, i principali elementi di transizione ed agiscono come elementi cromofori.

I risultati hanno dimostrato che il colore esibito da uno spinello non è solitamente dovuto agli elementi costituenti maggiori, ma a una combinazione di due o più elementi di transizione presenti come elementi minori (o addirittura in traccia). I cristalli con colori che variano dall’arancio (dovuto principiante al vanadio) al rosso al magenta (dovuti principalmente al cromo) presentano tipicamente un basso contenuto di Fe e contenuti variabili di Cr3+ e V3+, entrambi ordinati nel sito M. Invece i cristalli rosa e verde (e in parte anche il blu, dovuto al cobalto) devono il colore a contenuti crescenti di Fe. Quelli dal rosa al blu al verde scuro, nonostante appaiano totalmente diversi fra loro, sono accomunati dall’avere contenuti di Fe più alti rispetto agli altri e uno spettro di assorbimento ottico dalla forma relativamente simile.

Fig. 2 – Giovanni Andreozzi presenta il suo intervento dedicato ai meccanismi di formazione del colore negli spinelli.

Diego Gatta – Sulle tecniche non distruttive in gemmologia: la diffrazione di raggi-X da monocristallo

Diego Gatta del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano, ha portato all’attenzione della comunità gemmologica le potenzialità dell’utilizzo della diffrazione a raggi-X, una tecnica non distruttiva che consente di ottenere i parametri della cella elementare e la sua simmetria. Tali dati possono essere confrontati con il contenuto delle moderne banche-dati disponibili gratuitamente (come ad esempio quella disponibile all’indirizzo http://rruff.geo.arizona.edu/AMS/amcsd.php oppure http://www.crystallography.net/cod/). La diffrattometria non risulta al momento molto usata nei protocolli dei laboratori gemmologici: se da un lato non si presta all’identificazione dei trattamenti, dall’altro permette di lavorare con risultati non ambigui su campioni di dimensioni minute, cristalli con dimensioni medie di 0,04 mm fino a circa 10 mm. È stato poi mostrato un caso specifico di studio: un cristallo tetraedrico viola scuro di provenienza sconosciuto che ai test preliminari non era uno spinello. La diffrazione a raggi X in 13 minuti ha fornito un cristallogramma che ha consentito l’identificazione: chambersite.

Annalisa Martucci – Nuovo ritrovamento di dematoidi in Italia (Domus de Maria, miniera di “Sa Spinarbedda”, Sardegna)

Annalisa Martucci, dal Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università di Ferrara, ha per la prima volta – e compiutamente – caratterizzato il granato demantoide rinvenuto in Sardegna a Sa Spinarbedda, nel comune di Domus de Maria, territorio del Sulcis-Iglesiente.

Dopo quello della Val Malenco, ancora una volta questa gemma si lega al suolo italiano. L’analisi strutturale mediante diffrazione a cristallo singolo (XRSD), nel gruppo spaziale Ia3̅d, ha segnalato un volume di cella elementare (1757.15(2)Å3) leggermente maggiore rispetto a quello riportato in letteratura, suggerendo la presenza di acqua.

Michele Macrì – Jeff, i dinosauri che non si estinguono e la sindrome del pescatore

Michele Macrì, curatore museale presso l’Università La Sapienza di Roma, ha disquisito brillantemente su un tema solo apparentemente semplice e che ha già abbondantemente sviluppato sulle pagine di IGR (vedi l’articolo di Michele Macrì pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia nr. 1 – Maggio 2017): come si definisce una gemma? Il percorso logico che il ragionamento dispiega per giungere a tale definizione sottende in trasparenza la natura ed il fine stesso della gemmologia, intesa come disciplina scientifica. La gemma infatti – tra le tante cose che non è tutte le volte – non è un minerale (e allora la Moldavite?), non è un solido di origine naturale tagliato da esseri umani (e allora le perle? Il mollusco si classifica come tagliatore?), non è necessariamente durevole (la rodocrosite?), non è necessariamente bella (certe grandidieriti?). Allargare la definizione non rassicura: le gemme sarebbero dunque tutti gli oggetti naturali che sono ritenuti vendibili in gioielleria? Nemmeno per sogno: le collezioni mineralogiche occupano un’altra sezione di mercato.

Secondo Macrì la parola chiave è proprio questa, il mercato che l’economia vuole digitalizzare e che di fatto, in tanti casi, riesce a razionalizzare. Eppure quella che Macrì argutamente definisce “l’Amazoniano”, l’era del mercato digitale, pur provandoci, non riesce a controllare le gemme. Queste sono oggettivamente classificabili, ma fuori dai laboratori mineralogici sono sempre sottoposte ai criteri arbitrari del gusto e della soggettività. La gemmologia non è allora solo scienza, ma – in questa prospettiva – è anche arte, è anche filosofia.

E forse proprio l’impossibilità di riuscire a definire perfettamente le gemme da un punto di vista scientifico e commerciale rappresenta ciò che contribuisce a renderle eterne, affascinanti e desiderate.

Nicola Precisvalle – Nuovi sviluppi sulle relazioni tra struttura, chimismo e ambiente di provenienza di topazi

Nicola Precisvalle, del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università di Ferrara, ha focalizzato il suo intervento sulle relazioni tra struttura, chimismo e ambiente di provenienza di topazi. Lo studio del rapporto OH/F gioca un ruolo chiave per comprendere l’ambiente di formazione di questa pietra. Il fluoro (F) si trova accumulato in fluidi acquosi a fine cristallizzazione del magma (alta T) e viene trasportato mediante circolazione post magmatica (bassa T). Da ciò si evince chiaramente che i sistemi ambientali di formazione si trovano vincolati all’efficienza del processo di partizionamento minerale/fluido (nel rapporto F/OH in reazioni di scambio a varie condizioni redox). In un’epoca gemmologicamente caratterizzata dalla frenetica rincorsa alle provenienze dei depositi, questo studio inquadra la geografia dell’origine geografica anche per i topazi. All’esigenza del mercato ed all’uso che se ne farà nei report la risposta.

Fig. 3 – Cristalli di topazi provenienti dagli Stati Uniti. (Foto: Parent Géry/Wikimedia Commons, License CC BY-SA 3.0)

Giovanna Agrosì e Gioacchino Tempesta – Lo studio dei difetti strutturali come fingerprints nelle gemme

Giovanna Agrosì e Gioacchino Tempesta hanno offerto alcuni esempi di come lo studio dei difetti strutturali dei minerali, le interruzioni cioè delle caratteristiche ordinate, possa aiutare il lavoro di identificazione – a volte anche stabilendo la provenienza geografica – delle gemme.

Lo studio dei difetti mostra se la gemma è di origine naturale o sintetica, il modo e le condizioni in cui si è formata ed infine se ha subito processi successivi alla sua cristallizzazione. Sono stati illustrati casi di studio che riguardano l’analisi dei difetti estesi sia del diamante che delle gemme di colore, utilizzando la topografia rX, una tecnica per immagini che sfrutta la diffrazione dei raggi X. La Laser Induced Breakdown Spectroscopy (LIBS) si è inoltre dimostrata utile per lo studio dei difetti puntuali.

Alessia Coccato – Gemmologia classica e tecniche avanzate per lo studio non distruttivo di gemme blu

Alessia Coccato, del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania, ha mostrato un caso di studio pratico: il riconoscimento di gemme blu. Cianiti, tanzaniti, corindoni zaffiri, cordieriti: se non montate si possono facilmente discriminare con i metodi classici: polariscopio, rifrattometro, spettroscopio, bilancia idrostatica, microscopio. Se sono montate su gioielli? La spettroscopia Raman può dare una mano.

Valentina Gagliardi – Spettroscopia IR nelle analisi dello smeraldo

Valentina Gagliardi, dell’Istituto Gemmologico Italiano, ha utilizzato invece principalmente la spettroscopia IR, per identificare e caratterizzare il contenuto dei riempimenti delle fratture superficiali degli smeraldi. Siamo nel vivo del lavoro dei laboratori gemmologici, dentro una tematica scottante e dibattuta che influenza molto la valutazione e che è molto sollecitata dalle richieste del mercato. Non a caso IGR ha dedicato molto spazio all’approccio dei maggiori laboratori mondiali sul tema della rendicontazione di questi riempimenti (vedi l’articolo di Jeffery Bergman pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia nr. 10 – Autunno 2020). La reazione spettrale IR – ha spiegato la relatrice – offre dati distinti tali da identificare i riempienti nelle loro varie tipologie.

Fig. 4 – Esempio di smeraldo con fratture trattate per riempimento. (Foto: Gem-Tech Istituto Gemmologico)

Ferdinando Bosi – La tormalina come gemma

Ferdinando Bosi, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università La Sapienza di Roma, ha spiegato in profondità le caratteristiche uniche del supergruppo delle tormaline, suddiviso in gruppi (alcalino, calcico e vacante) sulla base del costituente dominante al sito X.

Tale suddivisione riflette la paragenesi della roccia nella quale la tormalina cristallizza. La tormalina è un ciclosilicato di B e Al molto complesso, che incorpora durabilità, bellezza e rarità, fornendo un elevato numero di varietà distinte soprattutto attraverso un vasto spettro di colori: rubellite (rosa-rosso), tormalina canarino (giallo), verderlite (dal giallo-verde al blu-verde), cromo-tormalina (verde intenso), paraiba (blu-verde brillante), indicolite (azzurro-blu), acroite (incolore).

La formula chimica generale della tormalina è: XYZ(T6O18)(BO3)3V3W, dove di norma X = Na, Ca e • (vacanza); Y = Li, Mg, Mn, Fe, Al, V, Cr; Z = Al, Mg, Fe, V e Cr; T = Si, Al, B; B = B, V = (OH) e O; W = (OH), O e F. Dal punto di vista cristallografico, la struttura della tormalina gioca un ruolo primario nel determinare in particolare la durabilità di questa pietra preziosa. L’impalcatura tridimensionale degli ottaedri ZO6, dove spesso Z = Al3+, fornisce alla tormalina un’elevata durezza (~7.5 nella scala di Mohs) e una variazione limitata della forza di legame Z-O (~0.5 vu) nelle diverse direzioni. In questo modo si previene sia la scalfittura, evitando di perdere la lucentezza delle superfici levigate, sia la rottura della gemma secondo superfici cristallografiche, rendendo eccellente il grado di portabilità.

Oltre a questa resistenza meccanica, il forte legame Z-O fornisce anche una resistenza all’alterazione chimica e meteorica. Pertanto, la forte e rigida impalcatura ZO6 determina un’elevata stabilità del minerale, il quale può crescere fino a raggiungere facilmente dimensioni di qualche centimetro. La sua crescita come materiale altamente trasparente, per lo più privo di inclusioni e altre caratteristiche interne, forniscono i cristalli di qualità gemma richiesti per il taglio delle pietre sfaccettate. Lo sviluppo, lungo l’asse c, dell’impalcatura principale ZO6 crea dei canali strutturali, all’interno dei quali risiedono le isole strutturali, composte da poliedri XO9, YO6, TO4 e BO3 (Bosi 2019). All’interno delle isole strutturali, in particolare negli ottaedri YO6, sono accolti gli elementi cromofori (Ti, V, Cr, Mn, Fe, Cu). La disposizione, perpendicolare all’asse C, delle isole strutturali determina un forte pleocroismo (ω >> ε), il cui colore può variare da molto intenso a debole.

Fig. 5 – Grezzi di tormalina elbaite varietà indicolite. (Foto: Collezione Paolo Minieri Pietre)

Giuseppe Elettivo – Il gemmologo sul campo: le miniere di tormalina brasiliana

Giuseppe Elettivo, geologo e gemmologo, ha portato all’attenzione dei partecipanti il tema della prospezione mineraria e ha dato conto di alcune esperienze sul campo d’estrazione. In particolare ha riferito della sua missione in Minas Gerais nelle miniere pegmatitiche nel distretto di São José da Safira. Individuare vene gemmifere redditizie è un’attività delicata poiché i costi economici si impennano quando si decide di procedere in una direzione di scavo. In un simile contesto, per l’orientamento, è particolarmente utile l’utilizzo del GPR (GeoRadar, Figura 6), uno strumento che è in grado di rilevare differenze di densità del terreno attraverso l’emissione e la ricezione di segnali a determinate lunghezza d’onda.

La tecnica d’utilizzo del GPR richiede un grande lavoro sperimentale per andare solo alla conclusione dei rilievi in galleria a verificare quello che effettivamente si trova nel sottosuolo. Su tutto però pesa una grande complessità: non esistono né letteratura né dati condivisi sui GeoRadar proprio a causa della sensibilità delle informazioni che possono rivelarsi decisive nella resa economica.

Fig. 6 – Il GeoRadar (GPR) permette ai geologi di determinare le differenze di densità dei suoli e di effettuare migliori prospezioni. (Foto: Geologicharka/Wikimedia Commons, License CC BY-SA 3.0)

Marco Torelli – Procedure analitiche per migliorare i flussi di lavoro in un laboratorio di analisi gemmologiche

Con Marco Torelli, direttore del Laboratorio Gemmologico Masterstones, i lavori hanno preso una piega decisamente pragmatica e si sono indirizzati verso l’esperienza giornaliera del laboratorio d’analisi. Alla base bisogna continuamente dialogare con il “fronte” teorico, seguire la ricerca e la letteratura scientifica, la caratterizzazione dei minerali e l’identificazione dei trattamenti. Poi però bisogna passare all’attuazione pratica ed elaborare procedure che rispondano alla richiesta di documentazione valida per certificare le proprietà delle gemme sui mercato. Torelli ha richiamato le esperienze passate (introduzione e sperimentazione della spettrometria LIBS con l’Università Aldo Moro di Bari in collaborazione col Prof. Eugenio Scandale) e ha auspicato una più intensa collaborazione col mondo universitario. Il focus della presentazione ha riguardato non solo la strumentazione utilizzata ma soprattutto la routine e la sequenza dei passaggi tra le diverse rilevazioni. Per escludere che un diamante sia sintetico, ad esempio, si possono utilizzare più tecniche: la FTIR per la caratterizzazione del tipo, l’UV-VIS-NIR oppure lo spettrometro a fluorescenza EXA per rilevare la presenza di azoto nel reticolo cristallino. La FTIR è ancora decisiva per la determinazione dei filler negli smeraldi. Con la Micro-Raman si ottengono conferme sulla presenza di vetro in fessure o cavità del corindone, ma soprattutto indicazioni sulla provenienza geografica, attraverso l’identificazione di micro inclusioni. Inoltre, lavorando in fotoluminescenza, si riscontra la presenza di silicio (Si) nel diamante sintetico CVD, ma anche il cambiamento strutturale in quello naturale IIa decolorato. Con la LIBS si rilevano specifici elementi in traccia, specialmente il berillio (Be) nei corindoni, nei casi di sospetto trattamento per termodiffusione profonda.

Manuela Rossi – Caratterizzazione degli aloni blu negli zaffiri fancy

Manuela Rossi, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ambiente e delle Risorse dell’Università di Napoli Federico II, ha offerto un approfondimento su una questione che resta assai scottante nel ramo della rendicontazione gemmologica: l’identificazione dei trattamenti di diffusione profonda nei corindoni. In particolare la ricerca si è concentrata sulla caratterizzazione degli aloni blu (Figura 7), indizio speso usato dagli analisti per la determinazione del trattamento di diffusione di berillio in traccia, trattamento in grado di modificare il colore di molti zaffiri.
Il lavoro è stato possibile dalla collaborazione, ratificata da un apposito accordo formale tra l’International Gemological Institute e le facoltà della Federico II di Chimica e Scienze della Terra con la coordinazione di Francesco Sequino, direttore del laboratorio gemmologico Gem-Tech di Napoli. Lo scopo, oltre la determinazione delle cause degli aloni blu, è anche quello di introdurre procedure empiriche utili all’identificazione del trattamento con strumentazione meno sofisticata.

I corindoni con diffusione profonda al berillio sono stati introdotti nel mercato circa 20 anni fa. Già in un lavoro del 2003, si rilevava che i campioni di gemme diffuse al Berillio provenienti da Songea, contenenti cristalli di rutilo, mostravano un tipico pattern di diffusione interna, consistente in cristalli esagonali o di forma irregolare circondati da un alone blu sferico. Il contrasto tra il colore blu e il resto del colore delle gemme (giallo, arancione o rosso-aranciato) era netto. IGI e Federico II si sono concentrati sull’investigazione delle cause effettive dell’alone blu negli zaffiri, dato che l’argomento di ricerca non era stato ancora ampiamente documentato in letteratura.

Fig. 7 – Alone blu in zaffiro trattato per termodiffusione profonda. (Foto: IGI International Gemological Institute Italy)

Sono stati analizzati 43 campioni di gemme tagliate di diversi colori (rosa, verde, blu, viola, arancione, rosso e giallo) provenienti da produttori thailandesi. Tra questi, 14 campioni (di colore giallo e arancione) hanno mostrato un alone blu e sono stati analizzati con microscopi ottici, spettroscopia micro-Raman, tecniche SEM e EDS e diffrazione dei raggi X in polvere (PXRD) per ottenere maggiori informazioni sulla genesi dell’alone blu e sul relativo sistema di inclusioni che sono risultate essere dovute a Ti, a Ti-Al e Ti-Fe: in particolare è stata riscontrata la presenza di rutilo, tistarite, tialite e soluzioni solide di ematite-tistarite.

È possibile che il processo di termodiffusione con berillio causi una parziale fusione delle inclusioni solide preesistenti, come il rutilo, e localmente porti ad una parziale fusione e destabilizzazione della struttura del corindone che a questo punto accoglie al suo interno il titanio presente nel rutilo. L’ipotesi è che il cambio delle condizioni chimico fisiche dovute all’abbassamento della temperatura, possa provocare la formazione di queste nuove fasi come la tialite, la tistarite e le soluzioni solide tistarite-ematite.

Fig. 9 – Francesco Sequino, CEO dell’Istituto Gemmologico Gem-Tech e docente IGI (International Gemological Institute), coordina un progetto di ricerca sulla Termodiffusione profonda negli zaffiri. (Foto: Gem-Tech Istituto Gemmologico)

Raffaella Navone – Drôlerie. Materiali inusuali in un laboratorio gemmologico

L’escursione di Raffaella Navone del Laboratorio Gemmologico R.A.G. nei materiali inconsueti sottoposti storicamente all’analisi ha permesso di ricostruire alcuni casi assai bizzarri, come ad esempio un calcare micritico a grana estremamente fine o un esemplare di piromorfite, raro minerale di piombo.

Fabrizio Nestola – Il Diamante: viaggio al centro della Terra

Fabrizio Nestola, del Dipartimento di Geoscienze dell’Università degli Studi di Padova, ha dato inizio alla seconda giornata di lavori. L’intervento era molto atteso per la rilevanza ed il prestigio internazionale degli studi da lui condotti sul diamante come vettore di informazioni sulla storia e sull’evoluzione del nostro pianeta. La svolta per una decisa accelerazione si è avuta nel 2013 grazie alla concessione di fondi europei mediante i quali il gruppo di collaborazioni, da lui coordinato, s’è esteso.

Le inclusioni dei diamanti sono indizi e tracce utili per l’identificazione gemmologica e al contempo elementi negativi quando si parla di valutazione commerciale. Ma al contrario, in geologia, impurità ed inclusioni presenti nei diamanti sono finestre aperte che puntano verso il centro della Terra, trasportatori di frammenti mineralogici provenienti da grandissime profondità. Tre rapidissime considerazioni mostrano l’importanza delle informazioni contenute e custodite in un sistema chiuso dai diamanti: sappiamo poco o niente sulla Terra a profondità comprese tra 120–130 km e 800–1000 km, solo i diamanti possono giungere in superficie da tali profondità, la loro età – fino a 3,6 miliardi di anni – consente di fotografare intere fasi dell’evoluzione del pianeta, grazie ad inclusioni che possono risalire a miliardi di anni.

Fig. 8 – Inclusione di Magnesiochromite intrappolata in un diamante. (Foto: Fabrizio Nestola, Scientific Reports (2019) 9:12586, Nature, License CC BY 4.0)

I diamanti litosferici, il 99% di tutti i diamanti studiati sinora, si formano a profondità comprese tra circa 120–130 fino a circa 200–210 km nel mantello terrestre. Hanno morfologie molto regolari (cubo-ottaedro, etc.) e presentano un contenuto in azoto come impurità molto elevato fino a qualche migliaio di parti per milione. Tuttavia, la principale caratteristica dei diamanti litosferici è la tipologia di inclusioni tipiche del mantello superiore, dal granato (protogenetico, si trova solo se i suoi cristalli sono inferiori a 100 micron e la temperatura di formazione è superiore a 1273 K), all’olivina, dal pirosseno ai solfuri di ferro, alla coesite e altre fasi minori.

I diamanti super profondi, anche conosciuti come diamanti sublitosferici, sono invece estremamente rari, l’1% di tutti quelli investigati fino ad oggi; nascono a profondità molto elevate tra i 300 e i 1000 km; possiedono morfologie molto irregolari e contenuti in azoto spesso trascurabili e sono identificati per la tipologia delle loro inclusioni mineralogiche, ferropericlasio (che si trova ad una profondità minima di 450 km), breyite (CaSiO3), jeffbenite (composizione avvicinabile a quella di un granato piropo-almandino) e molte altre fasi ancora oggetto di studio.

Loredana Prosperi – Il diamante naturale e i suoi competitors: analisi gemmologiche e sfide analitiche

Loredana Prosperi, dell’Istituto Gemmologico Italiano, ha passato in rassegna quelli che sul mercato vengono considerati i “concorrenti” storici del diamante, pietre che con questo possono essere confusi per il loro aspetto. I primi materiali di questo tipo ad essere utilizzati sono stati quelli naturali ed incolori, topazio, quarzo, zircone cui hanno fatto seguito quelli artificiali e senza corrispondente naturale, come “YAG”, “GGG”, “Titanato di Stronzio (Fabulite)” e “Zirconia Cubica”. Dal 1996 s’è imposta la moissanite. Fin qui la strumentazione tradizionale può bastare per il riconoscimento, a volte il semplice rifrattometro che indica adeguatamente i valori al di sotto di 1,78.

Attualmente il “competitor” più aggressivo è il diamante sintetico, per il quale sono necessarie strumentazioni avanzate, spesso disponibili solo presso i laboratori più rilevanti.

Fig. 10 – Cubic Zirconia faccettati. I tempi in cui erano i più diffusi “concorrenti” dei diamanti sono ormai finiti. (Foto: Collezione Paolo Minieri Pietre)

Giancarlo Della Ventura – Spettroscopia e imaging FTIR dei diamanti

Giancarlo Della Ventura, del Dipartimento di Scienze dell’Università di Roma Tre, ha illustrato alcune applicazioni di spettroscopia infrarossa (FTIR) applicata ai diamanti, allo studio delle impurezze, tipicamente azoto (N) e boro (B). Il diamante ha uno spettro IR molto caratteristico, cosa che consente sia di identificare in modo relativamente semplice la gemma da imitazioni con proprietà simili, tipo ZrO2 cubica o la moissanite (SiC), che differenziare diamanti naturali da sintetici, che caratterizzarne eventuali trattamenti in alta pressione e temperatura.

Oltre a queste applicazioni gemmologiche, le nuove tecniche micro-spettroscopiche IR oggi permettono l’accesso ad informazioni scientifiche di grande attualità per la ricostruzione della geofisica del nostro pianeta. I diamanti nascono a grande profondità nel mantello terrestre vengono poi trasportati sulla superficie dai processi geodinamici, per cui spesso conservano nel loro interno frammenti di materiali inglobati durante la loro crescita e il loro tragitto verso la superficie. Lo studio di queste inclusioni, che possono essere sia solide (minerali) che gassose (molecole volatili come CO2, H2O, o idrocarburi). Oggi si possono ottenere immagini ad alta risoluzione della distribuzione di inclusioni all’interno dei campioni.

Alberto Scarani – Screening dei diamanti e identificazione delle pietre di colore mediante spettroscopia e fluorescenza

Alberto Scarani, gemmologo e produttore di strumentazione gemmologica, ha condotto i lavori del Convegno verso i casi specifici di screening di diamanti in particolare di piccole dimensioni, la vera sfida diagnostica che i laboratori oggi devono affrontare. Sul mercato non è affatto raro trovare infatti diamanti sintetici nei lotti di melee naturali. Le difficoltà sono aggravate dal fatto che i laboratori analizzano i diamanti montati sulla gioielleria meno frequentemente delle pietre sciolte e quando lo fanno le difficolta operative aumentano.

Il mercato ha necessità di metodi di screening che abbiano caratteristiche adeguate ad arginare il problema, essenzialmente: facilità d’uso anche per personale senza competenze specifiche, economicità, velocità operativa. Sono quindi apparsi sul mercato strumenti basati su singole differenti tecnologie che stanno consentendo di effettuare screening veloci su larga scala usando test basati sul riconoscimento univoco del materiale sintetico o di quello naturale. I metodi tradizionalmente usati sono certamente utili ma non si adattano alla necessita dello screening rapido ed efficiente. Questi sono basati sulla trasparenza ad onde corte (indagine complicata da fare per grandi quantità di pietre), sulla fosforescenza (basato sulla ricerca del boro che ne è responsabile) e sulla luminescenza.

Fig. 11 – Screening dei diamanti mediante spettroscopia a fluorescenza. (Foto: Alberto Scarani)

Diversamente da queste metodologie lo screening incentrato sulla fluorescenza (Figura 11) mira all’individuazione di una caratteristica riscontrabile solo nei diamanti naturali incolori, l’aggregato dell’azoto denominato N3, un difetto che non può essere replicato nei sintetici incolori. In pratica si tratta di aggregati di azoto che producono una chiara traccia spettrale. La tecnica è così efficace che permette di rilevare tracce di N3 anche in una discreta quantità di diamanti naturali di tipo II che ne dovrebbero essere, per definizione, privi. Le pietre che nello screening sono individuate come prive di questo difetto diagnostico vanno inserite nel gruppo “refer”, cioè tra quelle che devono essere risottoposte ad ulteriori indagini.

Questo tipo di indagine permette di avere ottimi risultati anche con i diamanti fancy e con le pietre di colore che presentano specifici spettri di emissione che ne consentono l’identificazione univoca. È principalmente il caso di gemme con impurezze di cromo e vanadio. La spettroscopia a fluorescenza è anche utile per identificare i trattamenti mediante impregnazione con sostanze estranee, ad esempio negli smeraldi. In molti casi è anche possibile distinguere se il materiale di riempimento è di origine organica o sintetica.

Maria Cristina Caggiani – Studi di provenienza e alterazione dell’ambra: un approccio multianalitico

Maria Cristina Caggiani, del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università degli Studi di Catania, ha illustrato degli approfondimenti sulla provenienza e l’alterazione di alcune ambre, quella della Romania (romanite) e quella della Sicilia (simetite). La prima si differenzia dalla seconda, varietà molto rara e pregiata, perché è più ricca in gruppi carbossilici, probabilmente perché è più ossidata. Provenienza e gradi di alterazione di campioni di origine geologica o archeologica richiedono varie metodologie d’indagine: la spettroscopia Raman si è dimostrata efficace nel riconoscimento della romanite e della simetite, anche in accoppiamento con Risonanza Magnetica Nucleare (NMR) e trattamento statistico, basandosi su caratteristiche spettrali che sono legate a diversi gradi di maturazione. Indagini FT-Raman sono servite anche, assieme a trattamento statistico, a caratterizzare incrostazioni e scurimento di succinite e romanite sottoposte a weathering artificiale, distinguendo due diversi comportamenti in termini di degrado del materiale che non ha raggiunto una propria stabilità (ossidazione e conseguente formazione di gruppi acidi ed esteri).

Rocco Gay – Le variabili che determinano il mercato delle gemme di colore

La presentazione di Rocco Gay, imprenditore nel ramo del taglio delle pietre, ha aperto una finestra sul mercato, sulle caratteristiche dei player che determinano le tendenze, sulle gemme e le qualità richieste. Ai valori in calo generalizzato della domanda e delle esportazioni italiane di gioielleria nel periodo della crisi sanitaria, fa da contrappeso una tendenza al rialzo dell’uso delle gemme di colore (+5,7% costante per i prossimi 20 anni) che cresceranno più del diamante (nel 2019 negli USA -8% diamanti e +14% pietre di colore). Protagonisti del decollo saranno i grandi brand del lusso, LVMH, Richemont, Kering, Gucci, Armani, Pomellato assieme nuove realtà innovative, social brand e gruppi di nicchia ma in crescita costante.

Il mercato delle gemme tiene dunque necessariamente conto della domanda alimentata da organizzazioni fortemente strutturate e verticali, capaci di imporre prodotti e generare desiderabilità nonché di affrontare i nodi della tracciabilità delle materie prime. I produttori di pietre devono allora esser in grado di garantire la provenienza, escludendo paesi sgraditi perché eticamente censurabili, garantire la costante reperibilità dei materiali, rispondere a richieste di tagli ineccepibili, seriali e perfettamente realizzati che spesso diventano iconici per i brand. In termini tecnici giocano un ruolo determinante le produzioni gestite con processi meccanizzati, controllo numerico e con uso di laser; va peraltro notato che l’assenza di qualsiasi tipo di trattamento non è più un fattore invocato come irrinunciabile dal mercato, a condizione che i trattamenti siano non intensivi e debitamente dichiarati.

Particolare importanza riveste il distretto di Valenza dove si sono insediate Bulgari (1400 dipendenti), Cartier, Equinoxe, oltre ad altri gruppi di rilievo che alimenteranno un forte indotto per le gemme.

Daniela Mele – La micro-tomografia 3D per lo studio delle caratteristiche interne dei diamanti

L’intervento di Daniela Mele del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, ha evidenziato i benefici della microtomografia computerizzata di assorbimento a raggi X ad alta risoluzione non distruttiva per lo studio dei diamanti. Attraverso questa tecnica è difatti possibile ottenere immagini tridimensionali della microstruttura interna del diamante. Lo studio di queste immagini 3D associate ad altre tecniche non distruttive permette l’identificazione ipotetica degli ambienti di formazione.

Martha G. Pamato – Caratterizzazione in-situ delle inclusioni di solfuro nei diamanti e l’età di formazione del diamante

Martha G. Pamato, del Dipartimento di Geoscienze dell’Università degli Studi di Padova, ha concentrato i suoi studi sulle inclusioni maggiormente contenute sui diamanti: i solfuri. I diamanti cristallizzano nel mantello e, attraverso eruzioni esplosive, vengono portati in superficie. All’interno contengono i solfuri che si sono formati contemporaneamente o forse anche prima del diamante. Per questa ragione le inclusioni di solfuro sono uno strumento importante per datare la formazione del diamante e sono i migliori candidati per studiare la composizione e l’evoluzione del mantello, i processi fisici e chimici del mantello avvenuti durante la formazione dei diamanti.

Fig. 12 – La conferenza del 22 luglio 2021.

Giulio Chiodi – Analisi di corindoni trattati mediante tecnica SEM-EDS

Giulio Chiodi, del laboratorio Labigem di Vicenza, attraverso il SEM-EDS Phenom XL della Thermo Fisher Scientific ha analizzato dei campioni di corindone per evidenziarne i trattamenti. La tecnica è particolarmente utile per lo studio dei corindoni riempiti con vetri a base di metalli pesanti, difatti la strumentazione permette di analizzare le gemme ad elevato ingrandimento e di focalizzarsi sulle fratture e/o cavità riempite dove è possibile ottenere un’analisi chimica elementare delle sostanze usate come riempimento

Floriana Rizzo – Identificazione di tormaline mediante spettroscopia Raman

Floriana Rizzo, del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università degli studi “Aldo Moro” di Bari, ha presentato uno studio per l’identificazione delle tormaline utilizzando la spettroscopia Raman. La grande richiesta di questa gemma, ormai conosciuta anche al mercato italiano, ha richiesto un metodo per l’identificazione rapida di alcune delle specie appartenenti al supergruppo. La spettroscopia Raman risulta un metodo low-cost, non distruttivo e capace di identificare i vari minerali in modo univoco attraverso uno spettrogramma con picchi caratteristici.

Giada Marchetti – Turchese naturale e trattata con metodo Zachery: uno studio preliminare

Giada Marchetti, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano, ha affrontato il problema dell’identificazione tra la turchese naturale e quella trattata con il metodo Zachery (trattamento applicato ai grezzi di qualità medio-alta che rendono la gemma più dura e di colore più intenso di cui ad oggi non si conosce dettagliatamente la procedura).

Attraverso l’utilizzo di tecniche analitiche di varia natura (EMPA, SEM, XRD e microtomografia a raggi X) tradizionali e innovative, il gruppo di ricerca è riuscito ad evidenziare delle differenze tra campioni trattati e non. Lo studio ha evidenziato un aumento di potassio ai bordi delle turchesi Zachery, un’evidente presenza di bordi di reazione che interessano l’intera gemma trattata e la presenza di una componente non cristallina ad oggi ancora ignota, tutte caratteristiche assenti nei campioni naturali.

Giacomo Eramo – Gem Session: musica dalle gemme

La chiusura delle le due giornate di convegno ha visto un intervento ingegnoso, non privo di un certo fascino e di ispirazione. Giacomo Eramo, del dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari, ha elaborato un processo di sonificazione applicato alle caratteristiche di alcuni cristalli. In particolare l’esperimento è stato basato sulla scansione delle posizioni atomiche giacenti su piani perpendicolari agli assi per produrre una melodia unica grazie alla trasposizione in notazioni musicali dei seguenti elementi: gruppo tavola periodica = durata (breve/lunga), posizione angolare = altezza (grave/acuto), periodo tavola periodica = timbro (strumento), distanza dall’asse di simmetria (intensità). I presenti hanno così potuto “ascoltare” il suono che “emettono” alcune gemme. Purezza, peso, colore e taglio si convertono nella forma musicale, strumentazione, dinamica e tipo di tricordi.

Articolo di Paolo Minieri, pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia n. 13, Autunno 2021

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